Lubiana, la città circondata dalla memoria
Pensando ai luoghi di memoria e alle targhe commemorative vengono in mente cigli di strade oggetto di commemorazioni ufficiali, musei, l'architettura monumentale nelle piazze: insomma spazi quasi sacri, momenti celebrativi e di approfondimento organizzati da sezioni Anpi, istituti storici, insegnanti o istituzioni.
Non viene in mente tuttavia, nella nostra geografia della Resistenza, un luogo che sia soprattutto spazio di vita, di quotidianità, oltre che di ricordo. Un posto che faccia della storia una compagna conosciuta delle nostre giornate.
Per trovare un luogo simile dobbiamo andare in Slovenia, precisamente a Lubiana, percorrere a piedi o in bicicletta i circa trenta chilometri di pista ciclabile che, ad anello, ne circondano il centro storico; fermarci a leggere i pannelli e i cippi che raccontano della seconda guerra mondiale; sfogliare le pagine dell'occupazione fascista della cittadina.
Quell'anello verde è il POT, acronimo di “sentiero del ricordo e della solidarietà” in lingua locale, ed è il più grande monumento antifascista d'Europa, contrassegnato dalla stella rossa dei partigiani sloveni.
Il Pot sorge, o meglio, ricalca il tracciato del filo spinato che fece di Lubiana negli anni del conflitto un campo di concentramento, un ghetto, per i suoi abitanti.
Era il 6 aprile 1941 quando il Regno di Jugoslavia - nato dalla dissoluzione dell'impero asburgico e di quello ottomano dopo la prima guerra mondiale - venne invaso dalla Germania, dall'Italia e dall'Ungheria nella cosiddetta 'guerra d'aprile'. Con la spartizione del territorio balcanico, l'Italia si annesse parte della Slovenia istituendo la “Provincia di Lubiana”.
La popolazione rispose ingaggiando un'immediata guerriglia contro l'occupante. Già il 27 aprile infatti i comunisti e i socialisti cattolici diedero vita al Fronte di liberazione nazionale e Lubiana ne divenne il centro nevralgico.
Nelle città e nelle montagne della provincia si formarono gruppi di partigiani sloveni armati - talvolta ingrossati da disertori del Regio esercito - sostenuti e alimentati dai civili.
La reazione del governo fascista fu immediata quanto violenta: rappresaglie, eccidi, deportazioni, italianizzazione forzata. Si sviluppò così una guerra aspra e senza quartiere fra invasori e invasi, guerra non solo militare ma anche culturale come dimostra, ad esempio, l'intitolazione di bande partigiane a poeti sloveni messi all'indice dal nazionalismo italiano d'esportazione.
Fu così che la mattina del 23 febbraio 1942 la popolazione di Lubiana si svegliò imprigionata nella sua stessa città. Nella notte infatti le forze di occupazione fasciste avevano innalzato un muro di filo spinato, che ne circondava il perimetro e che presto fu dotato di torrette di controllo e posti di blocco. Ogni collegamento con la campagna fu da quel momento rigidamente vigilato, così come i rifornimenti di viveri necessari alla sopravvivenza quotidiana dei cittadini. Per cercare di colpire la resistenza tutti i maschi adulti furono catturati, sottoposti a controllo e internati soprattutto nel campo di concentramento di Gonars. In alcune zone della provincia le autorità italiane puntarono alla deportazione di intere popolazioni pur di togliere il terreno da sotto i piedi ai partigiani, inasprendo così l'odio dei civili sempre più disposti a sostenere i loro figli e fratelli contro gli invasori.
Dopo l'8 settembre 1943, con la firma dell'armistizio, Lubiana fu occupata dalle forze armate tedesche, le quali mantennero l'isolamento della città e incrementarono le violenze contro una popolazione già molto provata, come testimoniano i dati contenuti nel numero 10 dei “Quaderni della Resistenza” del Comitato Regionale Anpi del Friuli Venezia-Giulia. In 29 mesi di occupazione italiana della Provincia di Lubiana vennero infatti fucilati, come ostaggi o nel corso di operazioni di rastrellamento, oltre 5.000 civili, ai quali si devono sommare 200 vittime di azioni di violenza quotidiana, 900 partigiani fucilati in prigionia e oltre 7.000 persone - soprattutto anziani, donne e bambini - morti nei campi di concentramento di Arbe e Gonars.
Il bilancio finale è drammatico: circa 13.000 persone uccise su un totale di 340.000 abitanti residenti nella provincia al momento dell'occupazione.
Liberati il 9 maggio del '45, i cittadini di Lubiana festeggiarono con un corteo che camminò oltre il reticolato che per quattro anni li aveva ingabbiati. Pochi mesi dopo venne rimosso il filo spinato e vennero abbattute le fortificazioni, mentre la città crebbe estendendo i propri confini oltre l'anello della guerra.
Dal 1957 una marcia podistica annuale lungo il Pot commemora la resistenza, le scolaresche vengono portate su quel sentiero per conoscere la loro storia e gli abitanti di Lubiana si immergono nel suo verde per fare jogging, camminare o pedalare, accompagnati dalla stella partigiana, che ricorda come quei metri di terra simbolo oggi di tempo libero furono il segno tangibile di una prigione a cielo aperto.
Noi italiani siamo abituati alle nostre lapidi e ai nostri monumenti della seconda guerra mondiale, ma non siamo abituati a sentire parlare dell'Italia come solitamente parliamo della Germania.
Compiere dunque viaggi sui luoghi dei nostri crimini di guerra rappresenta, oltre a un dovere, un'ottima occasione per rendersi conto delle responsabilità non solo del regime fascista ma di tutto un mondo - dall'esercito agli impiegati statali – fatto di persone che a vari livelli collaborarono attivamente all'occupazione, sottomissione e vessazione di popolazioni e culture; un mondo forse abitato da ignavi più che da criminali ma comunque povero di 'brava gente'.
Gemma Bigi