"Afghanistan: il fallimento dell'intervento militare, la possibile forza di difesa europea, le nuove sfide per l'Italia e l'Ue"
DOCUMENTO DEL COMITATO NAZIONALE SULLE VICENDE DELL'AFGHANISTAN
(Approvato all'unanimità)
Il mostruoso attentato del 26 agosto all'aeroporto di Kabul è il più drammatico segnale dell'instabilità della situazione in Afghanistan dopo il fallimento dell'intervento militare e delle operazioni che, a seguito dell'accordo di Doha, avrebbero dovuto consentire una fuoriuscita regolata da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati.
Questo drammatico conflitto è terminato, ma non sono terminate le sofferenze degli afghani: da un lato il governo dei talebani sembra formato dalla loro parte più radicale, integralista e fanatica, dall'altro inquieta per la sicurezza internazionale e dello stesso Afghanistan la presenza organizzata in alcuni territori delle strutture locali dell'Isis, responsabile a quanto sembra dell'attentato all'aeroporto del 26 agosto ed infine c'è da esprimere una grave preoccupazione per le notizie di violenze, sopraffazioni e omicidi che giungono da quel Paese e che richiedono un immediato intervento delle diplomazie di tutto il mondo.
Il quadro della situazione si presta a molteplici considerazioni che proviamo qui a ridurre all'essenziale.
Come premessa va ricordato che gli Stati Uniti armarono e finanziarono i mujaheddin in Afghanistan dal 1979 al 1989 in base al programma Cia “Operazione Cyclone”, contribuendo così in modo determinante al fallimento dell'intervento militare sovietico. La vittoria dei talebani coincise con la traumatica fine di un lungo periodo di modernizzazione del Paese iniziato alla fine degli anni 60, grazie a cui il processo di emancipazione e liberazione delle donne fece enormi passi avanti, e con l'inizio di un regime oscurantista.
Fin dal suo inizio l'invasione americana dell'Afghanistan apparve un'avventura scarsamente motivata e pericolosa; scarsamente motivata, se è vero che nessuno degli attentatori dell'11 dicembre 2001 era afghano; pur essendo reale l'esistenza di basi di Al Qaeda in Afghanistan e possibile la presenza di Bin Laden in Afghanistan, apparivano gravi responsabilità dell'Arabia Saudita, fedele alleato degli States: 15 dei 19 attentatori dell'11 settembre erano infatti sauditi, come saudita era Bin Laden. Pericolosa, perché la storia dell'Afghanistan ha visto sempre la sconfitta degli invasori anche perché si tratta di un Paese che di fatto non è uno Stato nazionale, ma un insieme di etnie divise al loro interno in tribù, dove pure si era avviato un processo di modernizzazione sociale e culturale. La scelta di Bush fu quella dell'apprendista stregone, avviando una guerra senza ritorno e senza chiari obiettivi, a cui si sono
accodati l'UE e la Nato, in ottemperanza al suo art. 5, in modo passivo e subalterno, e con loro l'Italia, disattendendo di fatto al disposto dell'art.11 della Costituzione.
D'altra parte la coalizione non si è limitata alla caccia ai covi di Al Qaeda ed a Bin Laden, col consenso dell'ONU in base al principio di autodifesa, ma ha dato vita a un conflitto totale e senza quartiere contro i talebani, con catastrofici effetti per la popolazione civile. Con l'uccisione di Bin Laden nel maggio 2011 (avvenuta fra l'altro in Pakistan e non in Afghanistan) è scomparsa qualsiasi ulteriore motivazione della guerra, eppure essa è durata altri dieci anni. La scelta di por fine al conflitto, per di più clamorosamente perso, è quindi giusta, seppur tardiva. Si ricorderà che l'accordo relativo è stato stipulato da Trump il 29 febbraio 2020 tramite l'accordo fra le parti di Doha in Qatar. Ma tale scelta, unita alle modalità della conclusione del conflitto, ha avuto e avrà conseguenze pesantissime. L'attentato all'aeroporto ne è un ovvio segnale. Il totale disimpegno degli Stati Uniti in Afghanistan senza alcuna ragionevolezza logistica e temporale e senza alcun coinvolgimento dei Paesi alleati, assieme al crollo delle strutture statali e militari afgane, determinerà – e probabilmente sta già determinando – profondi e per alcuni aspetti imprevedibili cambiamenti nel futuro del mondo.
La giusta scelta di Biden di abbandonare l'Afghanistan è stata fatta, in sostanza, nel modo peggiore, senza peraltro coinvolgere tutti gli attori internazionali: non solo l'UE, ma anche la Russia e in particolare la Cina. C'è il rischio che il disimpegno americano dall'Afghanistan preluda ad un acuirsi delle tensioni verso la Russia ma in particolare verso la Cina, il cui coinvolgimento per disegnare il futuro dell'Afghanistan è invece necessario, come giustamente sottolineato da Draghi.
Il degrado dei rapporti fra l'Unione Europea e gli Stati Uniti è stato confermato dal recente G7, dove il Presidente americano ha rifiutato di procrastinare i tempi di allontanamento dall'Afghanistan, come richiesto dal leader britannico Johnson nonostante l'ultimatum dei talebani. Appare saggia la convocazione del G20, proposta dal Presidente del Consiglio italiano, perché coinvolge un più ampio numero di Paesi nella discussione ed in particolare la Russia e la Cina, ma anche la Turchia e l'Arabia Saudita, seppure sarebbe opportuno trovare forme di coinvolgimento di altri Paesi confinanti con l'Afghanistan, come Iran e Pakistan, che già ospitano milioni di afghani.
L'invasione dell'Afghanistan, iniziata vent'anni fa spodestando l'emirato islamico afghano, cioè il governo dei talebani, e avviando una tragica occupazione, si conclude, davanti alla dissoluzione delle strutture di uno Stato evidentemente fantoccio, con la restaurazione dell'emirato: si tratta di una storica sconfitta politica e militare.
Si chiude così un conflitto durato più del doppio della somma dei periodi delle due guerre mondiali, con costi giganteschi, 241mila morti (di cui oltre 70mila civili) secondo il (prudente) report del Watson Institute, un'inflazione galoppante, una produzione di oppio mai vista in passato, una corruzione dilagante a cominciare dalle più alte autorità di governo, l'inesistenza di una campagna di vaccinazione anti Covid, una quantità di investimenti nel settore civile irrisoria rispetto alle spese militari. Chi ha guadagnato cifre colossali sono stati la lobby delle armi e le agenzie di contractor, cioè di mercenari, che hanno partecipato alla guerra con più di 100mila uomini.
È improbabile che la fine della guerra in Afghanistan disegni la fine della centralità dell'Occidente e dell'egemonia a stelle e strisce, ma sicuramente ne rappresenta un segno forte di decadenza. Va ricordato che le popolazioni europea, americana, canadese, australiana rappresentano nel loro insieme circa un decimo del totale della popolazione mondiale – poco meno di 8 miliardi di persone – e che un reale governo del mondo non può avvenire a trazione forzosa, unilaterale e minoritaria.
La conclusione fallimentare delle ostilità in Afghanistan rappresenta inoltre la fine di qualsiasi teoria di esportazione o di trapianto del tipo ideale di governo di un popolo chiamato democrazia, che di fatto – dove è stato tentato – ha teso a proporre come universali anche gli usi, i costumi e la cultura dell'Occidente: la forma che negli ultimi decenni ha assunto un progetto di fatto neocoloniale. A ben vedere, per di più, questi tentativi di esportazione della democrazia hanno in realtà proposto uno specifico modello di democrazia presentandolo di fatto come l'unico possibile: la democrazia liberale. Tali tentativi, come ci dimostra l'esperienza dell'Afghanistan, dell'Iraq, della Libia, sono falliti. Gli ideali della democrazia, che si può realizzare in varie forme, hanno sì una valenza universale ma vanno storicamente declinati in luoghi e tempi determinati, perché devono fare i conti con la storia, la geografia e la cultura di ciascun popolo. È perciò ragionevole pensare che gli orizzonti di sviluppo della democrazia nel mondo si possano realizzare attraverso specifiche vie nazionali che saranno presumibilmente molteplici e diversificate.
Ciò non può significare il disinteresse rispetto alle vicende di altri Stati in particolare dal punto di vista dei diritti umani, ma la via attraverso cui battersi per una loro effettiva universalità non può che essere quella dei rapporti diplomatici, anche aspri, come nel caso della situazione turca o egiziana, attraverso la strada maestra della cooperazione e degli interventi civili, di cui l'esempio più emblematico è Emergency.
Peraltro con la conclusione della guerra in Afghanistan cade – ci auguriamo – definitivamente il grande inganno delle “guerre umanitarie”, che, oltre a stragi e disastri, ha causato una drammatica instabilità in tante parti del mondo ed in particolare in Medio Oriente.
Nell'immediato c'è il rischio che si rafforzino i sovranismi nell'Unione Europea per tre ragioni: 1) il modello degli Stati Uniti come Paese che tende a soddisfare esclusivamente i propri interessi nazionali (American First) può essere contagioso: se “American First”, perché non “Prima gli italiani”? 2) dalla conclusione della vicenda afghana Trump esce in qualche modo vincitore nel suo conflitto con Biden, risalendo così la china della sconfitta elettorale; 3) la nuova ondata di migranti, in questo caso afghani, sta già determinando reazioni di chiusura e di xenofobia.
L'Unione Europea deve immediatamente reagire senza incertezze a questa situazione respingendo qualsiasi idea di Europa-fortezza o Stati nazionali-fortezze, mettendo finalmente e urgentemente a tema una politica di difesa e di sicurezza autonoma e comune che oggi non c'è. Difformemente da diverse dichiarazioni di personalità politiche e del mondo dell'industria che abbiamo letto in questi giorni, tale politica deve avere una natura rigorosamente difensiva, escludendo interventi militari come quelli avvenuti negli ultimi vent'anni, che dietro il pretesto della sicurezza nazionale o continentale o quello della difesa dei diritti umani, nascondevano volontà neocoloniali e imperialistiche. La stessa lotta al terrorismo ha bisogno di un coordinamento sempre maggiore e sempre più efficace fra tutti i Paesi UE, sapendo che una delle cause della virulenza terroristica negli ultimi vent'anni è stata determinata proprio da tali interventi militari, come in Iraq e in Libia.
Va inoltre aperta a livello europeo una riflessione sulla NATO e sulla sua esistenza, non solo perché sono venute meno le ragioni storiche del patto di difesa legato alla guerra fredda ed al contrasto col blocco dell'Est, ma anche perché la sua nuova funzione di appoggio a interventi cosiddetti umanitari, sempre manifestata nella forma di aggressione militare, si è dimostrata fallimentare come nel caso dell'Afghanistan o ha causato effetti catastrofici, come nel caso della Libia, Paese che si è di fatto dissolto come entità nazionale. A fronte della costituzione di una forza di difesa europea, potrebbero venir meno le già carenti ragioni di esistenza della NATO.
Ma è l'insieme della politica estera dell'UE che va rivista, privilegiando la cooperazione ed il confronto continuo, in una visione policentrica che, a maggior ragione nel tempo della globalizzazione, guardi al mondo non come un territorio da adeguare alla sua cultura, al suo sistema politico ed economico, ma come una grande occasione di relazioni economiche, commerciali, culturali, ideali, e mantenendo salda la radice antifascista della stessa unità europea che in qualche circostanza in questi ultimi anni è sembrata vacillare.
In sostanza l'Europa in politica estera e in politica di difesa e di sicurezza ha bisogno di una rivoluzione copernicana.
L'accoglienza dei migranti dall'Afghanistan, con una particolare attenzione alle donne ed alle loro famiglie, è un dovere civile e morale dei Paesi dell'Unione Europea, in particolare di tutti i Paesi che hanno partecipato alla campagna militare in Afghanistan. Occorre una regia ferma e rigorosa che distribuisca con equilibrio e responsabilità il flusso dei migranti contrastando senza quartiere bizantinismi, chiusure, provincialismi che già si stanno manifestando. Bene ha fatto il coordinamento donne nazionale ANPI a lanciare un appello per il sostegno e per l'accoglienza delle donne e più in generale di tutti i profughi afghani: “Di fronte a questa nuova, devastante emergenza umanitaria, è necessaria una mobilitazione urgente, anche di solidarietà materiale”.
Va comunque sempre ricordato che la condizione di costrizione e subalternità delle donne è una caratteristica non del solo regime talebano, ma anche di tanti altri Paesi teocratici, a cominciare dalle monarchie del Golfo, in particolare dell'Arabia Saudita, tutti Paesi con cui l'Occidente ha ampi e ricchi rapporti politici e commerciali.
Infine, la vicenda afgana è anche una lezione per il nostro Paese, dove troppo spesso la discussione in Parlamento sul merito e le finalità delle missioni militari è stata approssimativa e superficiale, soffermandosi prevalentemente sui progressivi rifinanziamenti come è avvenuto per l'Afghanistan: occorre una visione del mondo all'altezza dei tempi, superando qualsiasi sindrome da guerra fredda, qualsiasi subalternità, qualsiasi pregiudizio eurocentrico, ricercando ogni occasione per promuovere cooperazione e sviluppo.
Mai come oggi l'obiettivo dell'Italia, dell'Europa e di tutto l'occidente dev'essere quello di una rinnovata coesistenza pacifica, che metta al centro il freno della corsa agli armamenti e rilanci un effettivo ruolo dell'ONU anche per la promozione di un politica delle materie prime non predatoria e attenta a promuoverne un uso ambientalmente e socialmente non nocivo.
Roma, 10 settembre 2021