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Resistenza nonviolenta 1943-1945

di Ercole Ongaro, I libri di Emil, 2013, pp. 319, euro 19,00

È un libro interessante quello scritto da Ercole Ongaro, direttore dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea. Interessante a partire dal titolo; semplice e sintetico, contiene un aggettivo che qualifica la Resistenza di cui l’Autore intende occuparsi: “nonviolenta”.

Un simile attributo spicca ancor di più sulla copertina, comparendo senza trattino, tutto attaccato insomma.
Ongaro non sconfina in sterili polemiche, si domanda solo alla fine quale mai sia stato il senso di una necessitata Resistenza armata, e avvia il proprio studio con una classificazione delle varie forme di lotta resistenziale: una militare, l’altra nonviolenta, appunto.

Dopo un distinguo del genere incomincia a incasellare le tante manifestazioni della Resistenza senza armi (ognuna delle quali corrisponde a un capitolo del volume): si va dall’aiuto ai soldati in fuga, agli ex-prigionieri alleati, agli ebrei, alla scelta degli internati militari; dalle lotte nelle fabbriche, nelle campagne, nelle scuole ai comitati di resistenza nei lager; dalle scelte dei renitenti di leva alle molteplici azioni delle donne. Un intero capitolo è dedicato poi, assai correttamente, alla stampa clandestina (perché bisognava “far sapere non solo lottare” come precisa l’Autore in un paragrafo).

Il libro è agile e prende avvio con una citazione, proprio alla nota numero uno, di March Bloch.

Non si tratta di un mero omaggio al grande studioso, profondo conoscitore del medioevo, che scelse di combattere - nelle fila della Resistenza francese - e di morire, dopo aver rifiutato la fuga all’estero, quindi, la salvezza. E’ probabilmente la sottolineatura di quanto la storia sia relativa e differenti (al di là di alcune analogie) siano sempre i mestieri del giudice e dello storico.

Ongaro dimostra di aver imparato la lezione di March Bloch quando, a un certo punto, manifesta il suo disinteresse verso l’introduzione di «una scala gerarchica valoriale tra le forme di Resistenza nonviolenta e quelle di Resistenza armata».

La Resistenza al nazifascismo, prosegue l’Autore, «è stata una sola, interpretata in modi diversi da ciascuna componente politica e sociale, con la propria specificità ideologica e di genere». Pertanto, bisognerebbe «superare la distorsione della narrazione storiografica, sedimentata nell’immaginario collettivo, che fa identificare la Resistenza con la minoranza rappresentata dai partigiani armati ed eclissa la grande maggioranza rappresentata da tutti quei resitenti che non hanno fatto ricorso alle armi».

E ancora, emerge chiaro l’intento di Ongaro: «assumere la prospettiva delle lotte nonviolente» - egli ribadisce - «permette di comprendere e valorizzare in modo del tutto nuovo la grande partecipazione della popolazione a quella rivolta morale e politica che fu la Resistenza». Lotta di un popolo “alla macchia” (verrebbe da dire riprendendo il titolo di uno scritto di Longo datato 1947) nel senso amplissimo che l’espressione può assumere.

Silvia Buzzelli