Adolfo Ortolan
Il nome era Adolfo; ma a 16 anni, diceva, era un nome troppo serio e così si fece chiamare Dolfino, anche quando si trattò di scegliere uno pseudonimo (il "nome di battaglia", si diceva allora), come le regole della lotta clandestina imponevano per non farsi riconoscere. E fu "Dolfino" fin da un gelido giorno di febbraio del 1944, allorquando a Marcon - piccolo paese a ridosso della Mestre industriale - un gruppo di ragazzi, raccolti e stimolati da suo padre, Giacomo Ortolan, si costituì in banda cospirativa per lottare contro tedeschi e fascisti. Altri si chiamarono "Bocia" (ragazzo, piccolo, in dialetto veneziano), "Mario", "Canna", "Lupo". Allora il più "vecchio" aveva 19 anni; erano operai, contadini, fabbri, studenti lavoratori. "Dolfino" era studente e a scuola andava benino, leggeva molto, aveva un carattere socievole. Piuttosto alto e robusto per i suoi sedici anni scarsi. Aveva occhi chiari (come la madre, che alla sua morte quasi impazzirà e non si rimetterà mai più). Faceva molti progetti per il dopoguerra: "Vorrei viaggiare - diceva al "Bocia", l'amico preferito - conoscere l'Italia; ma soprattutto vorrei lottare a fondo contro le ingiustizie, queste miserie". Accennava ai contadini scalzi, che per risparmiare le scarpe le portavano appese al collo indossandole solo sulla soglia della chiesa; alle dodici ore di lavoro al giorno per molti operai; all'analfabetismo; ai molti ragazzi che, pur abitando a dieci chilometri dal mare, non l'avevano mai visto; che consideravano il pane alla stregua di un dolce.
Ma non ci furono altre lotte, né viaggi, né alcun progetto per "Dolfino". I suoi giovani anni finirono alla periferia di Treviso, nell'alba umida e un po' grigia del 23 aprile 1945, il giorno in cui giunse l'ordine di passare all'insurrezione per la liberazione di Treviso. Un'ultima sortita di un reparto della sanguinaria Brigata nera "Cavallin" di Treviso (tristemente nota nella zona per le numerose efferatezze compiute) riesce a sorprendere in una ospitale casa colonica il piccolo nucleo di partigiani. I fascisti circondano la casa, intimano la resa. "Dolfino", il padre, altri partigiani afferrano un'arma alla meno peggio ed escono da una finestra. I primi riescono a calarsi in un fossato vicino, altri sono colpiti. La Brigata nera non fa prigionieri; al capofamiglia, un povero contadino che chiede grazia per le donne e i bambini, sparano freddamente in testa; poi la casa è incendiata, il bestiame disperso; sul terreno giacciono lo zio Ettore e altri uccisi. "Dolfino", ferito, è barbaramente ucciso a colpi di bastone sul capo: e pensare che, qualche mese prima, i partigiani della brigata, dopo aver catturato alcuni giovani fascisti, li avevano rimessi in libertà proprio per la loro giovane età. Il drappello nero rientra a Treviso; di lì a due giorni sarà travolto e annientato dall'insurrezione.
Alla madre è data una Medaglia d'Argento al Valor militare. Quaderni e libri ricordano i sogni di un ragazzo che voleva il suo paese libero, i contadini non più oppressi.