Aldo Moro
Aveva iniziato ad interessarsi di politica tra il 1943 e il 1945 e nel 1946 era già tra i “Padri costituenti”. Rapito il 16 marzo 1978 (quando era ormai riuscito a convincere i democristiani della necessità di un “governo di solidarietà nazionale”, con la presenza del PCI nella maggioranza parlamentare), Moro fu eliminato il 9 maggio successivo, dopo una prigionia di 55 giorni. Nella ricorrenza del 33° anniversario del ritrovamento del cadavere di Moro (cui resti furnono fatti trovare in una Renault 4 rossa in via Caetani, emblematicamente vicina alle sedi nazionali della DC e del PCI), il professor Gotor, dell’Università di Torino, ha tenuto alla Camera dei deputati questo discorso:
“Desidero anzitutto ringraziare il presidente della Camera, l'on. Gianfranco Fini per la sua presenza, gli altri autorevoli relatori che sono intervenuti e che seguiranno, ed esprimere la mia gratitudine all'on. Enzo Carra, presidente dell'associazione “Visioni contemporanee”, il quale ha voluto promuovere questo incontro e invitarmi a partecipare.
Siamo qui per ricordare Aldo Moro nell'anniversario del suo barbaro assassinio, avvenuto 55 giorni dopo la strage di via Fani e la morte dei 5 agenti della sua scorta. Come è noto il prigioniero, nel corso del suo sequestro, non scrisse solo delle lettere, ma anche il cosiddetto memoriale: 245 fotocopie, al quale ho dedicato un libro uscito presso l'editore Einaudi: Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l'autonomia del potere italiano.
In questa sede vorrei approfondire la parte a suo modo "storiografica" del memoriale di Moro dedicata all'analisi delle relazioni della Dc nel corso del trentennio repubblicano. Un argomento che l'uomo politico affronta e scioglie con un particolare quanto inevitabile accento autobiografico teso a spiegare e a testimoniare il proprio ruolo politico nel concorrere a definire i vari passaggi di fase. La sua vita coincide per intero con un periodo costituente della democrazia italiana. Il prigioniero, nel corso di un lungo brano in cui rievocava la sua formazione, metteva in luce il passaggio dall'Azione cattolica all'esperienza dentro la Dc, precisando di essere giunto, insieme con altri, a questa decisione «con una certa ingenuità, freschezza e fede». Gli obiettivi erano in continuità con l'impegno precedente: «aggiornare la vecchia (e superata) dottrina sociale cristiana, ormai in rapida evoluzione, alla luce del Codice di Malines e di quello di Camaldoli; dare alla proprietà, di cui allora si parlava ancora con un certo rilievo, un'autentica funzione sociale» e rappresentare «in armonia con la tradizione popolare del Partito una politica nella quale davvero gli interessi popolari, con le molteplici istituzioni collaterali, fossero dominanti».
Moro ricordava con accenti di rimpianto la stagione del suo lavoro alla Costituente, ove, insieme con il gruppo dei cosiddetti «professorini» si era molto impegnato nella costruzione delle fondamenta della casa comune. Un periodo «entusiasmante», «con uomini come Togliatti, La Pira, Basso, Marchesi, Dossetti», fattivo e collaborativo, in cui aveva imparato la pratica dell'ascolto e il senso del limite.
A rompere il clima di collaborazione civile e politica intervenne la frattura del 1947-1948 dovuta - secondo il parere di Moro - al mutamento del quadro internazionale e alla necessità economica italiana. Essa si realizzò dopo il viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti nel gennaio 1947. Il prigioniero ricordava la sua trepidazione per il repentino cambiamento di strategia del quadro politico perché temeva che ne sarebbe potuto conseguire un «dissesto» per il paese: e concludeva, «mi rimase il senso di una cosa grossa che veniva e che avrebbe pesato nel corso del tempo».
In seguito cominciarono le fasi più politiche, quelle che portarono all'elaborazione della strategia del centro-sinistra che «si affacciava - spiegava l'uomo politico - come fatto non eludibile. S'iniziava cosi lo spostamento verso sinistra dell'asse politico del Paese, anche per l'insistenza dei partiti intermedi e per robuste ragioni politiche, delle quali ogni osservatore sereno non può disconoscere la validità». La stella polare della Dc, che sempre più andò corrispondendo con la linea dell'azione di Moro, consisteva nell'identificazione di una comune radice costituzionale con il Partito socialista e con quello comunista, in cui la diversa collocazione internazionale, prima di entrambe le forze politiche e poi del solo Pci, costituiva la radicale e problematica differenza di fondo che rendeva il sistema politico italiano una «democrazia difficile».
Da questa ferrea constatazione scaturì la strategia di Moro, impegnata ad allargare i confini della democrazia italiana, includendovi negli anni Sessanta il Psi e negli anni Settanta il Pci in quanto forze autenticamente popolari. Si trattò di un progressivo allargamento dell'area democratica, in cui la Dc ottenne in cambio il riconoscimento della sua indiscutibile e necessaria centralità politica. Questo processo di accentramento del sistema avvenne in virtù della fluidità e della malleabilità dell'azione politica di quel partito che, essendo divenuto l'arbitro e il giudice dei destini altrui, esprimeva la propria temperata egemonia. Come Moro ebbe a dire nel suo ultimo discorso del 28 febbraio 1978 ai gruppi democristiani di Camera e Senato per persuaderli dell'opportunità di sostenere una maggioranza in cui fosse di nuovo presente il Pci dopo il 1947: «Quello che è importante è preservare l'anima, la fisionomia, il patrimonio ideale della Democrazia Cristiana [...] La nostra flessibilità ha salvato fin qui - più che il nostro potere - la democrazia italiana».
Come ha notato Mino Martinazzoli, l'idea di Moro di portare al centro tutte le forze popolari perseguiva l'obiettivo di ricomporre le fratture ideologiche per creare le condizioni di una competizione nuova e più efficace per il sistema italiano, incapace sino a quel momento di coniugare rappresentatività e decisione. Nelle intenzioni di Moro, tra la fluidità della società civile e il sistema parlamentare dei partiti, si sarebbe dovuto stabilire un nesso continuo: solo con la progressiva riduzione del distacco tra le grandi masse della popolazione e il sistema politico parlamentare ereditato dall'Italia liberale e prefascista, sarebbe stato possibile garantire il passaggio a una democrazia compiuta e dunque il realizzarsi delle condizioni per un'alternanza di governo. Ma nella testa dell'uomo politico questo era un cammino lento e graduale, che doveva procedere per tappe, assicurandosi prima di ogni nuovo passo che il precedente fosse stato assimilato e solidificato. La scalata della montagna italiana esigeva prudenza. Pertanto, l'idea che Moro volesse governare con il Pci, persuaso del valore progressivo di quell'alleanza, corrisponde a una ossessiva o malevola caricatura dei suoi avversari. Sia da libero, ad esempio nel discorso di Benevento del 18 novembre 1977, sia da prigioniero più volte egli palesò il carattere difensivo e circoscritto di quell'accordo. Esso scaturiva dal corpo della crisi italiana di cui costituiva una possibile quanto difficile soluzione di compromesso in ragione della collocazione internazionale del Pci che rendeva strutturalmente impraticabile l'alternativa e avrebbe comunque richiesto un lungo percorso di legittimazione e revisione ideologica.
Dentro il disegno fluente e apparentemente malleabile di Moro vi era anche un profilo di statista, che si espresse in duplice modo: da un canto, perseguendo l'obiettivo di allargare progressivamente la base democratica del paese, a partire dalla convinzione che esso andasse civilizzato nelle sue forme politiche anche al costo di perdere una quota di influenza del proprio partito; dall'altro, rivendicando in modo costante l'autonomia nazionale dell'Italia insieme con il diritto delle sue classi dirigenti di decidere da sole il proprio destino politico e civile.
Nello spiegare il suo ruolo nel partito il prigioniero ricordò ai suoi sequestratori che «non ero depositario di segreti di rilievo né ero il capo incontrastato della D.C. Si può dire solo che in essa sono stato presente ed ho fatto il mio gioco, vincendo o perdendo, anzi più perdendo che vincendo, per evitare una involuzione moderata della D.C. e mantenere aperto il suo raccordo con le grandi masse popolari».
L'involuzione moderata della Dc. Questo fu l'argine che si ruppe con la morte di Moro. In un certo senso, è vero che il movimento della storia ritornava indietro, ma non ai tempi precedenti la frattura del 1947 come previsto dal prigioniero, bensì alla cesura del 1959, quando era nata la corrente dorotea, antisocialista negli anni Sessanta e coerentemente anticomunista nel decennio successivo, ma disposta, a partire dal 1979, a stringere la mano al socialista autonomista Craxi che seppe farsi trovare pronto e pieno di energia all'appuntamento con il potere. Si ritornava al 1959, ma senza di lui perché quel punto di equilibrio e di incontro comune non serviva più.
Secondo Moro, al di là del suo destino personale, il prezzo politico pagato per questa soluzione, già maturata negli anni Settanta, avrebbe vieppiù favorito l'allignare della corruzione nella vita del paese e contribuito a provocare la crisi della forma partito.
Il prigioniero non era ottimista riguardo al livello raggiunto dalla corruzione partitocratica perché, nella sua valutazione, essa poggiava su cause oggettive di carattere interno e internazionale. Come spiegò Giovanni Moro in un'intervista del 1998, il padre, nel rivendicare il ruolo della Dc, aveva tematizzato come pochi il conflitto tra sistema politico e società italiana, acutamente consapevole della perdita di autorevolezza e della delegittimazione dei partiti che non avrebbero più potuto rivendicare il monopolio della dimensione pubblica. Sotto questo profilo Moro, sia da libero sia da prigioniero è stato il politico italiano che meglio di ogni altro si rese conto della crisi delle regole democratiche, intesa come difficoltà del sistema di governo parlamentare di risolvere il dilemma tra rappresentanza e decisione. Un problema comune a tante democrazie occidentali, ma che in Italia, ancora trent'anni dopo, si avverte con particolare urgenza. Moro, con la sua insistenza sulla presenza nella penisola di una destra profonda e non completamente espressa, sembrava ricordare che la nazionalizzazione delle masse nel nostro paese era avvenuta sotto il fascismo e dunque aveva assunto caratteri inevitabilmente autoritari. Una miscela particolare di iperpolitica e di antipolitica che la crisi degli anni Settanta avrebbe riportato in auge, naturalmente sotto forme nuove. Un fattore obiettivo che avrebbe condizionato gli sviluppi della qualità della democrazia italiana nel lungo periodo, favorendovi l'attecchimento, più che altrove, di modelli populistici e plebiscitari, di cui nelle pagine di Moro si legge in controluce la previsione.
Il discorso tuttavia riguarda più in generale il nostro paese perché Moro meglio di chiunque altro ha colto la portata della necrosi esistente tra sovversione armata e consociativismo, un processo progressivo e convergente che ha aumentato gli effetti di un sistema bloccato, avviandolo a un vero e proprio blocco di sistema, quello che stiamo vivendo nella fase attuale.
A mio parere la riflessione di Moro sopravvive ancora oggi per la sua capacità di difendere e di promuovere in ogni sede un'idea laica della politica, pur essendo egli animato da un sentimento religioso e da una fede tanto viva e complessa nel Dio cristiano; per il suo rifiuto di ogni alchimia elettoralistica in favore di una politica forte, robusta, curiosa, caratterizzata da un dialogo continuo tra partiti, movimenti, tendenze che realmente esistono nella società, a prescindere dall'ideologia e dalla propaganda con cui si rappresentano; per la sua fastidiosa convinzione che il radicalismo e il moderatismo siano due italiche attitudini molto meno antagonistiche di quanto si vorrebbe credere, che anzi si autoalimentano a vicenda, rendendo in Italia ogni sforzo riformatore un esercizio sempre difficile, a tratti pericoloso. Forse, a tali condizioni, si può accogliere la sfida profetica di Moro, quella sua pretesa di restare come «un punto irriducibile di contestazione e di alternativa», trentatré anni dopo, ancora.