Don Antonio Pegoraro
Nei suoi ultimi anni di vita don Pegoraro, a quanti gli chiedevano se un sacerdote può proporre il suicidio ai fedeli, rispondeva di sì, perché "in quel caso era un modo di rifiutare Caino". Si riferiva alla battaglia e a quella che è ricordata come la strage del Monte Grappa, del 22 settembre 1944, che costò alla Resistenza oltre trecento caduti. All'inizio dell'anno anche don Antonio era entrato in una formazione partigiana e - quando i tedeschi (appoggiati da collaborazionisti ucraini) e i fascisti (le Brigate Nere presidiavano i fondo valle), sferrarono contro le forze della Resistenza l'offensiva del 20 settembre - fu tra i patrioti caduti nelle mani delle truppe del Terzo Reich. Mentre su una spianata rocciosa un plotone d'esecuzione si apprestava a fucilare un gruppo di prigionieri, tra i quali c'era don Pegoraro, il sacerdote ottenne dall'ufficiale di poter confessare e assolvere i suoi compagni, prima che i tedeschi gli sparassero. A molti di loro sussurrò di lanciarsi in un profondo burrone, perché così, appunto, avrebbero "rifiutato Caino". Non fu ascoltato da quei giovani, già storditi dalla morte dei compagni, ma quando giunse il momento della sua fucilazione, don Antonio si buttò nel burrone. Quando i tedeschi se ne andarono, il sacerdote partigiano fu trovato, moribondo, da alcune montanare del luogo. Fu raccolto, nascosto, curato per mesi e mesi e, anche se malconcio, sopravvisse. Fiero del contributo dato alla lotta per la libertà. A lui, il "rifiuto di Caino" aveva anche salvato la vita.