Enrico Mancini
I suoi, quando era ancora bambino, si erano trasferiti a Roma e qui Mancini aveva frequentato le elementari al Testaccio. Presto Enrico aveva dovuto lavorare. Apprendista in una falegnameria, aveva appreso molto bene il mestiere, specializzandosi come ebanista. Lasciato il lavoro perché chiamato alle armi, aveva combattuto nella Prima guerra mondiale. Ne era tornato con il grado di sergente maggiore del Genio, una medaglia di bronzo e una croce di guerra e si era messo in proprio, aprendo una falegnameria nella zona di Porta San Paolo. Negli anni venti, il suo rifiuto di aderire al fascismo gli costò l'incendio del laboratorio e del negozio di mobili, ma Mancini, nonostante i sei figli da crescere, non si piegò. Nel 1942, si era ormai dedicato al commercio di mobili, fu tra i primi a Roma ad aderire al Partito d'Azione, coordinandone l'attività clandestina tra il Testaccio, l'Ostiense e la Garbatella e subito dopo l'8 settembre entrò nella Resistenza, assumendo funzioni dirigenti nella Brigata Garibaldi. Mancini si impegnò nel dare aiuto economico ai perseguitati politici, nell'organizzare i militari sbandati, nel mantenere i collegamenti con i partigiani alla macchia, nel rifornire di armi e di materiale di propaganda i gruppi della Resistenza. Un'attività preziosissima, che fu bloccata il 7 marzo del '44, quando i fascisti della banda Koch prelevarono Mancini nel suo ufficio, lo portarono nella famigerata Pensione Oltremare e di lì nella Pensione Iaccarino dove, nonostante dodici giorni di torture, non riuscirono ad estorcergli informazioni. Rinchiuso, il 18 marzo, nel terzo braccio di Regina Coeli in attesa di processo, vi fu prelevato quando i tedeschi decisero di compiere la strage delle Fosse Ardeatine e qui fu eliminato.