Famiglia Manfredi
Il capo famiglia, Virginio, era stato tra i fondatori in provincia di Reggio delle prime cooperative bracciantili e delle prime Leghe contadine ed aveva cresciuto i suoi sei figli negli ideali socialisti. Nessuno dei Manfredi aderì mai al fascismo e addirittura Virginio ritirò il figlio minore dalla scuola elementare per evitare che, come d’obbligo, indossasse la divisa di “Balilla”.
Dopo l’armistizio la famiglia Manfredi, dispersa dalla guerra, poté riunirsi. I fratelli, mobilitati in Grecia, Albania e Jugoslavia tornarono a casa; anche il figlio più giovane, Gino, che i tedeschi avevano catturato a Mentone e che era fuggito mentre lo stavano deportando in Germania, riuscì a tornare a Villa Sessa.
Proprio Gino assolse al primo incarico nella Resistenza locale, assumendo il comando di un distaccamento delle Squadre di Azione Patriottica. La casa dei Manfredi divenne presto luogo di riunione del CLN di Reggio Emilia, deposito di armi, posto di riferimento del Comando Piazza. Quasi ogni notte i Manfredi uscivano per condurre azioni contro i fascisti e i tedeschi, sino a che, nel dicembre del 1944, i repubblichini decisero di passare alla rappresaglia.
La notte del 17, quasi duecento fascisti di varia risma circondarono l’abitato di Villa Sesso e nella casa di Fulgenzio Jotti sorpresero Franco e Emidio Ferrari, Angelo Orsini e uno dei fratelli Manfredi (Alfeo di 35 anni), che stavano ascoltando una trasmissione di “Radio Londra”. Tutti furono brutalmente pestati e subito passati per le armi. I fascisti se ne andarono soltanto dopo aver saccheggiato l’abitazione di Jotti.
Il 19 i parenti di Alfeo celebrarono il funerale del congiunto e il giorno successivo, all’alba, altri 86 militi di una compagnia fascista, 30 della Guardia nazionale repubblicana e di altre formazioni, per un totale di 186 uomini accompagnati da sottufficiali tedeschi, irruppero a Villa Sesso; nel giro di alcune ore (secondo documenti repubblichini), i nazifascisti effettuarono 251 perquisizioni, 57 arresti, 432 fermi e 14 fucilazioni.
I fascisti non si lasciarono, naturalmente, sfuggire i Manfredi. Gino fu il primo a finire nelle loro mani, seviziato con un coltello e con un ferro da stiro tentò di salvare gli altri familiari, assumendosi tutta la responsabilità delle azioni compiute dai patrioti. La sua generosità non servì a nulla. Anche il vecchio padre, che si era offerto ai repubblichini in cambio dei figli fu, con loro, passato per le armi.
Fu soltanto l’intervento dei sottufficiali tedeschi che limitò a quattordici persone, contro le sessanta decise dai repubblichini, il bilancio della strage: i Manfredi (Gino di 29 anni, Guglielmo di 33 anni, Aldino di 34 anni), caddero, col loro padre e con Ferdinando Miselli, Remo Miselli, Efrem Conforti, Domenico Tosi, Spartaco Davoli, Emore Veronesi, Domenico Castellani, Aldo Corradini, Umberto Pistelli e Loris Simonazzi, in un campo prossimo ai locali della Cooperativa dove i repubblichini avevano rinchiuso i prigionieri. Proprio da una finestra della Cooperativa, l’unico dei Manfredi sopravvissuto (Attilio), poté assistere alla strage compiuta dai repubblichini.
Nel dopoguerra i ritratti dei “Martiri Manfredi” furono riprodotti in un cartolina commemorativa. La tragica vicenda dei Manfredi è stata raccontata in un libro scritto da G. Franzini nel 1968 e che ha per titolo: “Storia della Resistenza Reggiana”.