Fernando Strambaci
Dalla madre, Antonietta Romano, molto religiosa, aveva ricevuto un’educazione rigidamente cattolica. Il padre Luigi aveva partecipato da volontario alla prima guerra mondiale; si era poi arruolato nei carabinieri, congedandosi non prima di essere stato decorato con due medaglie al valore civile; aveva fondato “il Fascio” nel suo piccolo paese del Salento e se ne era staccato, stracciando la camicia nera durante una manifestazione fascista e mai più riprendendo “la tessera”, quando s’era convinto che il fascismo non avrebbe dato ai braccianti le terre dei latifondisti. Da lui aveva avuto, laicamente, un solo insegnamento: stare sempre dalla parte dei diseredati. Lezione imparata con facilità, visto che gli Strambaci avevano dovuto emigrare al Nord per sopravvivere; in paese, chi aveva potere non perdonava quella scenataccia in piazza contro il fascismo.
A Torino la vita di una normale famiglia operaia, col figlio maggiore (Fernando, appunto) che, si fantasticava, sarebbe diventato dottore e che era stato iscritto al Ginnasio al “Massimo d’Azeglio”, il più rinomato Liceo cittadino. A far svanire i sogni, la seconda guerra mondiale: il papà “richiamato” carabiniere e mandato in Puglia; Fernando che, per far quadrare il bilancio, dimentica il “d’Azeglio” e trova un posto “in nero” da apprendista meccanico. Il colpo di fortuna arriva con l’assunzione del ragazzino alla Michelin, dove il padre aveva lavorato come operaio (l’azienda era di proprietà francese e sulla mancata iscrizione al PNF si poteva chiudere un occhio), prima di essere “richiamato”.
L’armistizio muta la situazione: papà, che già era riuscito a farsi trasferire da carabiniere a Torino, è congedato ed è tornato in fabbrica. Alla Michelin Fernando s’è comportato bene, tanto che dall’officina l’hanno passato all’ufficio tecnico. Tanto vale che continui a studiare, ma per diplomarsi geometra. Un anno di scuola serale, con la preparazione avuta al Ginnasio, è più che sufficiente per presentarsi agli esami di IV Istituto tecnico.
Il 22 luglio del 1944 Fernando è sul tram e sta andando a scuola. Fascisti con le armi in pugno fermano il tram davanti alla stazione di Porta Susa. Tutti i passeggeri sono fatti scendere. Una sgomenta colonna di uomini donne e ragazzi viene spinta sino in corso Vinzaglio. Agli alberi sono stati fissati dei cappi. C’è tanta gente intorno e ci sono tanti fascisti. Arriva un camion. Si ferma vicino alle corde appese. Un po’ di retromarcia, poi i fascisti alzano il telone. Si vedono quattro persone di spalle. I boia gli infilano i cappi al collo e il camion riparte con un sobbalzo. I quattro corpi (sono quelli di Bena, Bricarello, Valentino e Vian) restano appesi. La gente resta lì, ammutolita.
I fascisti innalzano cartelli di minaccia, poi, dopo qualche ora, gli “spettatori” sono lasciati andare. Fernando arriva a scuola che i compagni stanno uscendo. Racconta quel che è successo a uno che gli è amico e che, di giorno, lavora alle Ferriere Fiat. L’amico si arrischia e parla di Resistenza. Il giorno dopo c’è un altro militante nel “Fronte della Gioventù” e un altro patriota nella VII Brigata SAP “E. De Angeli”. I mesi che seguono sono così, per Fernando, scarsi di studi e ricchi di azioni avventate e fortunate. Tentativi (falliti senza danno), di disarmare fascisti, distribuzione di volantini, scritte sui muri, raccolta di fondi per il “Soccorso rosso”, lettura di scritti di Lenin ricopiati a macchina con la carta carbone e passati di mano in mano, adesione al Partito comunista, organizzazione dello sciopero generale “contro la fame e il terrore” e, finalmente, il 24 aprile 1945, ordine di insurrezione.
Il ragazzo scopre così che anche suo padre è nella VII SAP. La stessa Brigata raccoglieva, infatti i lavoratori delle Ferriere Fiat, della Michelin, delle Officine di Savigliano, della Fiat Scaravella e gli antifascisti della Borgate torinesi Lucento, Vittoria, Madonna di Campagna e Barriera di Milano. Qualche rimbrotto per una regola della clandestinità così rigorosamente rispettata, pochi giorni di scontri e, finalmente, la vittoria sui nazifascisti. Quando la VII è smobilitata, ai compagni della Brigata che più si sono distinti nella lotta contro i nazifascisti viene consegnato il “brevetto” di combattente per la Libertà firmato dal generale inglese Harold George Alexander. Su un nome, Fernando (che partecipa alla riunione del CLN aziendale, in rappresentanza dei ragazzi del Fronte della Gioventù), non è d’accordo. Si tratta di un dirigente della fabbrica che è entrato nel Comitato, in rappresentanza del Partito liberale, pochi giorni prima dell’insurrezione. E’ stato accidentalmente ferito ad una gamba a insurrezione ormai conclusa. Il “superiore interesse dell’unitarietà del CLN” non convince il rappresentante dei giovani, che abbandona la riunione. Rifiuta di passare al CMRP (Comitato regionale militare piemontese) per ritirare documento di smobilitazione e, l’allora prezioso, “buono vestiario”. Rifiuta anche di iscriversi all’ANPI, ma si dedica, in fabbrica, all’attività del Fronte della Gioventù.
In agosto viene diffuso nello stabilimento il primo numero di “Voce Giovanile – Organo del Fronte della Gioventù Michelin”. Quattro ingenue paginette, tirate faticosamente al ciclostile, quindicinalmente, in un migliaio di copie. Ne escono nove numeri. Gli ultimi col disegnino del Bibendum, l’omino di gomma, simbolo dell’azienda. Ma “Voce giovanile” è anche il titolo di più importanti pubblicazioni del FdG . Si decide così di pubblicare, sotto la direzione di un comitato nominato dal CLN aziendale, un nuovo giornaletto. Si chiama “la Voce di Bibendum”, è stampato in una piccola tipografia scovata nei magazzini della fabbrica, ma presto assume un indirizzo considerato dai giovani troppo paternalista (rimarrà per decenni l’house organ dell’azienda). Nasce così, di nuovo al ciclostile, Il Battistrada - giornale di fabbrica a cura della sezione giovanile comunista”. Si tenta anche l’avventura, costosa, del giornale stampato in una tipografia esterna. Sotto il titolo, reca ora la scritta “giornale di battaglia dei giovani comunisti della Michelin”. Ne escono due numeri, poi Strambaci sconta il fatto di non essere passato nel 1945 dal CMRP e non riesce ad evitare gli obblighi di leva. Torna in fabbrica dopo undici mesi, riprende il suo lavoro di impiegato, è eletto membro della Commissione interna ed è nominato segretario della Cellula comunista della Michelin.
Le ferie, nell’agosto 1949, le utilizza per frequentare, in Valle Sauglio, la Scuola Regionale Quadri del PCI, diretta da Paolo Scarpone. Al ritorno in fabbrica organizza una serie di lezioni per gli operai tenute da economisti, storici, sindacalisti, ecc. Le lezioni sull’informazione le tiene Guido Milli, allora redattore capo dell’Unità di Torino, diretta da Mario Montagnana. Milli vede per caso alcune copie della Voce di Bibendum e del Battistrada. All’Unità c’era stata, allora, un’emorragia di giornalisti, che non se l’erano sentita di mutare – l’aveva proposto Luigi Longo - il rapporto professionale con quello di “funzionario di partito”, assai meno vantaggioso economicamente. Ecco, così, l’idea della “leva operaia”. Strambaci, così come compagni di altre aziende torinesi, sollevato dagli incarichi sindacali e di partito, terminato il lavoro in ufficio va a far pratica alla redazione dell’Unità, come gli ha proposto Milli. Qualche mese di lavoro in redazione e poi, superata la prova, l’assunzione al giornale con uno stipendio di molto inferiore a quello corrisposto dalla fabbrica di proprietà francese.
Nel 1957, quando per difficoltà economiche viene decisa la chiusura delle edizioni piemontesi e liguri del giornale, Strambaci, che con Diego Novelli (poi sindaco di Torino), è vice capo cronista di Adalberto Minucci (poi membro della Direzione del PCI), passa a Milano. Lavora alle “province”, agli “interni”, al “sindacale”, poi lavora come “inviato”. E’ Elio Quercioli che gli affida il compito di riorganizzare e dirigere il servizio ”attualità” dell’edizione milanese del giornale. E’ il 1969. Sulla strage di piazza Fontana, Strambaci firma il servizio, di cui è sempre andato fiero, considerato il più informato e giustamente orientato apparso sulla stampa italiana subito dopo la strage. Qualche anno dopo la nomina a redattore capo, l’incarico di segretario di redazione e, a tempo perso, la responsabilità della pagina “motori”, visto che… ha la patente di guida e che è cresciuto nella capitale italiana dell’auto.
Con questo incarico Strambaci riesce a riorganizzare, come gruppo di specializzazione della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, l'Unione Italiana Giornalisti dell’Automobile che, sino alla sua elezione a segretario, era stata poco più che un club di amici. Negli anni di piombo è il segretario di redazione che, in accordo con la Questura di Milano, organizza la “vigilanza” della sede del giornale e dopo che a Torino le BR hanno “gambizzato” il cronista Nino Ferrero, la protezione per i redattori più esposti. E’ sempre il segretario di redazione che deve occuparsi, con i tecnici dello stabilimento, del primo passaggio alle nuove tecnologie con l’abbandono della composizione in piombo. Ammodernamenti che non bastano ad evitare nuove difficoltà al giornale. Per far quadrare gli “organici”, nel 1983 Strambaci va in “pensione anticipata”. Continuerà a curare da collaboratore la pagina “motori” dell’Unità sino a che, Achille Occhetto, allora segretario del PCI, farà il “discorso della Bolognina”. Strambaci non apprezza il modo del cambiamento e scrive a Massimo D’Alema, allora direttore dell’Unità, una lettera – che non avrà risposta – per annunciare le dimissioni da responsabile della pagina “motori” dell’organo del PCI. Scriverà ancora di auto per qualche rivista specializzata, avrà ancora modo di essere nominato proboviro dell’Associazione Lombarda dei Giornalisti, di ricevere dall’Ordine la medaglia d’oro per i 50 anni di professione.
Gli resta però del tempo. Così accetta l’invito di Dario Venegoni a “dare una mano” alla redazione della sezione “Donne e uomini della Resistenza” sul sito nazionale dell'ANPI. Le schede già presenti nel sito erano allora 22. Schede di donne non ce n’era nemmeno una, e così Strambaci ha scritto subito quella di Tina Anselmi, il cui impegno nella Resistenza era cominciato come il suo. In un decennio di lavoro appassionato, di biografie partigiane Strambaci ne scrive oltre 2.500.
Dopo la prima vittoria di Berlusconi e dei suoi, Strambaci si è precipitato alla Sezione Mandelli, per iscriversi ai Democratici di sinistra.
Magari, visto che non vuole iscriversi, gli daranno la tessera dell’ANPI alla memoria.