Filippo Caruso
Di famiglia con forti tradizioni risorgimentali, concluso il Liceo si diede alla carriera militare. Combatté in Libia nella guerra italo-turca (1911-12) e poi, trasferito col grado di tenente nell'Arma dei carabinieri, nella prima guerra mondiale. Durante questo conflitto fu decorato con due Medaglie di bronzo e promosso capitano. La carriera di Caruso si svolse quindi tra l'Alto Adige, la Dalmazia, Firenze, Trieste, Livorno e poi ancora Firenze, come tenente colonnello, dopo essersi laureato in Giurisprudenza. L'alto ufficiale comandò, quindi, gli Allievi Carabinieri a Torino e diresse l'Ispettorato generale di P.S. in Sicilia sino a che, nel luglio del 1937, fu promosso colonnello ed assunse il comando della Legione di Ancona. Nel gennaio 1942 Filippo Caruso fu promosso generale di Brigata e collocato nella "riserva" per limiti di età. L'anno successivo, nel mese di marzo, Caruso chiese di essere congedato, ma al momento dell'armistizio organizzò in reparti i carabinieri sbandati, dirigendoli nella lotta a Roma e in altre località dell'Italia occupata dai tedeschi. Rientrato in servizio dopo la Liberazione, ha riorganizzato i reparti dell'Arma e dal luglio 1946 ha comandato la II Divisione Carabinieri "Podgora". Dall'aprile 1949 all'aprile 1957, Filippo Caruso è stato a disposizione del ministero della Difesa con incarichi speciali, sino a che non è stato collocato in congedo assoluto con la qualifica di Grande Invalido di guerra. Questa la motivazione della MdO concessa a Caruso:"All'atto dell'armistizio, sebbene non più in servizio, si schierava contro l'aggressore tedesco formando e alimentando personalmente le prime organizzazioni armate clandestine. Comandante di formazioni partigiane di carabinieri operanti in Roma, identificato e tratto in arresto, malgrado la minaccia delle armi, riusciva, dopo furibonda colluttazione con gli scherani nemici, ad inghiottire documenti compromettenti per la vita dei suoi più diretti collaboratori. Tradotto al carcere di via Tasso e sottoposto ad estenuanti interrogatori e crudeli sevizie, manteneva contegno fiero e sprezzante rifiutando qualsiasi rivelazione pur non avendo taciuto la sua qualità di comandante di bande armate. Alla vigilia della Liberazione, nell'imminenza dell'esecuzione capitale decretata nei suoi confronti dal nemico, pur consapevole della sorte che lo attendeva, con sovrumana serenità e con stoicismo di martire scriveva alla moglie parole sublimi di esortazione e di rassegnazione ed espressioni nobilissime per il destino della Patria e delle persone care. Incuorava poscia i compagni di prigionia, esaltandone il sacrificio e lanciava in faccia agli sgherri teutonici il grido irrefrenabile "Viva l'Italia". Evaso miracolosamente all'ultima ora ed ancora dolorante e sanguinante per le gravi ferite infertegli dai suoi aguzzini, correva a riprendere il comando dei reparti carabinieri operanti a tutela della Capitale. Segnava così traccia leggendaria delle sue virtù militari e del sublime amor di Patria".