Giancarlo Puecher
Aveva la passione del volo. E per essa abbandona l'università, lo studio dei codici e delle leggi tanto care al padre notaio, e nel luglio '43 si arruola in aviazione. È subito allievo ufficiale pilota ma sull'aereo non fa praticamente in tempo a salire, perché arriva l'8 settembre, lo sfacelo dell'esercito, l'occupazione tedesca dell'Italia.
Il marasma è generale ma Giancarlo capisce subito che ormai è guerra agli occupanti. Ne parla agli amici e non ha esitazioni. Mussolini è appena liberato dalla prigionia del Gran Sasso dal colpo di mano del maggiore delle SS tedesche Otto Skorzeny; il generale Rodolfo Graziani chiama all'appello i soldati, i giovani per un nuovo esercito a fianco dei tedeschi. Per Puecher la situazione è subito chiarissima: bisogna battersi per la liberazione dell'Italia, per sconfiggere definitivamente il risorgente fascismo. Inizia l'attività di partigiano con un gruppo di altri giovani di Ponte Lambro, nei dintorni di Erba.
La sua casa è luogo di incontri, di convegni, di accanite discussioni; una prima squadra partigiana, armata alla meglio, è presto organizzata. Ottobre e novembre lo vedono attivissimo nell'organizzazione di altri nuclei partigiani anche nella zona di Lambrugo. Il padre lo appoggia e nonostante il pericolo incita i giovani all'azione. Ma nel frattempo le prime, raccogliticce schiere fasciste si rinforzano con l'aiuto e l'armamento tedesco. La frenetica attività di Puecher crea irritazione nei comandi tedeschi che impongono ai fascisti di porre fine all'attività dei gruppi partigiani di Puecher.
Dopo numerosi appostamenti, catture sventate, scontri a fuoco, Giancarlo cade nelle mani della polizia "repubblichina". Arrestato assieme al padre, alcuni giorni dopo gli si offre l'opportunità di fuggire dalla prigione. Ma Giancarlo non coglie l'occasione. Un altissimo senso di responsabilità verso gli altri compagni arrestati, ai quali la sua fuga poteva nuocere, la solidarietà verso il padre - che condivide i suoi pensieri - lo fa restare prigioniero anche se ormai capisce che per lui non c'è scampo. Dopo un sommario processo è condannato a morte. Ha vent'anni e una profonda fede cattolica lo anima fin da bambino.
L'antivigilia del Natale '43 Giancarlo è davanti ai fucili fascisti nel cimitero nuovo di Erba. Forte della sua fede Giancarlo prega per sé e per i suoi uccisori. Chiede il nome dei militi del plotone, dice che li perdona e che il suo conforto nel momento del sacrificio ultimo è nella preghiera, nella fede. Qualche milite esita a sparare di fronte al comportamento di Giancarlo Puecher. Poi l'ufficiale ordina il fuoco. Alcuni giorni prima aveva scritto ai parenti: "Ho sempre creduto in Dio e perciò accetto la suo volontà".
Non contenti di aver ucciso il figlio i fascisti deportano il padre nel campo di concentramento di Mauthausen dove morirà di fame e di stenti.