Giorgio Labò
Due militi della PAI (Polizia Africa Italiana), abbassarono la sponda del camion. Ne discesero Antonio Bussi, Concetto Fioravanti, Vincenzo Gentile, Paul Lauffer, Francesco Lipartiti, Antonio Nardi, Mario Negelli e Augusto Pasini. Il nono condannato dovette essere trascinato a braccia, per la fucilazione sugli spalti di Forte Bravetta. Era Giorgio Labò, che per giorni era stato tenuto con le mani e con i piedi strettamente legati nella cella n° 31 del carcere romano di via Tasso. Di questo supplizio ebbe a scrivere Antonello Trombadori, suo compagno di lotta e di prigionia: "Il martirio della legatura mani e piedi durò diciotto giorni. Le mani strette dietro la schiena; una sull'altra; deve giacere bocconi per evitare che il peso del suo corpo ricada in modo insopportabile sulle mani tumefatte e gonfie per il nodo strettissimo della corda... Le mani sono diventate livide ed enormi per il gonfiore; il difetto di circolazione ha provocato anche sul suo volto gonfiori e rose di sangue. Attorno ai polsi un solco putrido... infezione, cancrena... ". Pure in queste condizioni, Labò, tradito con altri suoi compagni da Giovanni Amidei, non parlò durante la detenzione e seppe resistere sino alla morte. Giorgio Labò era studente di Architettura al Politecnico di Milano (che nel dopoguerra gli ha conferito la laurea "ad honorem"). Interrotti gli studi per il servizio militare, l'8 settembre del '43 era sergente del Genio Minatori. Passò subito, con il nome di battaglia di Lamberto, con i partigiani della zona di Poggio Mirteto. Poi, avendo acquisito da militare conoscenza degli esplosivi, aveva messo la sua esperienza al servizio dei GAP romani. Franco Calamandrei, in un ricordo di Labò pubblicato a venticinque anni dalla fucilazione del giovane gappista, annotava che "ingegnandosi sui mezzi di fortuna di cui disponeva nella piccola santabarbara clandestina di via Giulia, dai primi rudimentali spezzoni con la miccia a fiammifero Giorgio era arrivato, abbastanza presto, a mettere insieme ordigni a reazione chimica di impiego agevole e di funzionamento pressoché sicuro. E - si capisce - quel perfezionarsi del nostro arsenale aveva contribuito a sviluppare le possibilità offensive dei gruppi partigiani gappisti". Al nome di Giorgio Labò è oggi intestata una piazza di Genova, dove il padre Mario, apprezzato architetto, ha a lungo lavorato. Sempre a Genova, nel 1983, si è costituita la Fondazione Mario e Giorgio Labò, dedita a studi e ricerche sugli aspetti urbanistici, architettonici, tecnici e storico sociali della Liguria.