Vittorio Rinaldi
Vittorio Rinaldi, fabbro, cresce nella bottega per la lavorazione del ferro di suo padre Umberto. In famiglia, dove nessuno è mai stato iscritto al partito fascista, si discute di politica e si dissente dal regime; il laboratorio artigiano è frequentato da perseguitati politici come il socialista Artaserse Angeli. È proprio lui a disegnare col gesso, al giovane Vittorio che glielo chiede, una falce e martello, simbolo del lavoro. Seguìta la trafila obbligatoria fino al Fascio Giovanile di Combattimento e dopo il servizio militare nel 4° Reggimento Artiglieria Pesante di Piacenza, non ritira la tessera del PNF e diserta le adunate festive per dedicarsi alla caccia.
A 24 anni, il 22 maggio 1937, assieme ad alcuni amici, Rinaldi realizza con due tagli di stoffa, tinti e cuciti al centro, una rudimentale bandiera rossa di un metro e mezzo. Eseguito un cartone col profilo della falce e martello, viene impressa sui due lati del drappo utilizzando colla e porporina argentata. Poi, su un’asta in ferro battuto, il vessillo è innalzato a sventolare su una torre delle mura medievali di Assisi. Nel volgere di poche ore gli autori del gesto sono individuati, arrestati e duramente interrogati e percossi.
Denunciato dal Questore di Perugia alla Commissione Provinciale per l’Ammonizione e il Confino di Polizia, Vittorio Rinaldi è condannato a quattro anni di confino e destinato al soggiorno di Latronico, in provincia di Potenza, in quanto “individuo pericoloso per l’ordine nazionale, notoriamente di idee e di sentimenti sovversivi”. Due complici muoiono, uno ufficialmente suicida, l’altro sotto un treno durante la fuga.
Dopo un anno di sofferenze ai polmoni per le botte ricevute coi sacchetti di sabbia e una lettera di supplica del padre, la pena è sospesa con la condizionale e Rinaldi rispedito col foglio di via nella sua città. La salute è però irreparabilmente compromessa e Vittorio muore 18 mesi dopo: come risulta dai documenti, la settimana successiva egli è “radiato dal novero dei sovversivi”.