"Della Resistenza dobbiamo essere orgogliosi"
Questo il testo del discorso del presidente nazionale dell'Anpi, Carlo Smuraglia, nel corso della manifestazione svoltasi al Piccolo Teatro di Milano, il 25 aprile, per celebrare il 70° della Liberazione, alla presenza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella e del sindaco di Milano, Giuliano Pisapia.
On. Presidente,
mi permetta di rivolgerLe il saluto caloroso di tutta l’ANPI e un ringraziamento di cuore per aver accettato di essere presente a Milano in una giornata di grande impatto, come questa, cioè il 25 aprile del 70° anniversario. E’ un altro gesto significativo che Lei compie, dopo aver accennato alla Resistenza ed al 70° nel Suo discorso di insediamento davanti al Parlamento. Significativo, perché non usuale e appunto per questo tale da mettere in moto una serie di reazioni positive, relative al 70° anniversario della Resistenza e della Liberazione, che hanno impresso un tono diverso e nuovo a questa ricorrenza.
Ci sono state diverse iniziative dedicate - appunto - alla Resistenza ed alla Liberazione, quella delle Camere riunite, il 16 aprile scorso, di singoli ministri, ed iniziative del Governo in varie parti d’Italia. E c’è stato anche un rinnovato e più ampio interesse da parte degli organi di stampa. Abbiamo accolto tutto questo con soddisfazione, perché siamo convinti che il 25 aprile debba essere la Festa di tutti e dunque anche delle istituzioni.
Nel mio intervento alla Camera mi permettevo, peraltro, di auspicare che la Liberazione e la Resistenza non restassero il ricordo e le riflessioni di un giorno ma si inserissero a pieno titolo nella storia e nella coscienza del nostro Paese.
Su questo mi permetto di insistere anche in questa sede, perché il nostro Paese, ogni tanto, appare come smemorato e perché una parte di esso continua a non accettare la storia così come essa è, ormai, nella opinione consolidata degli studiosi e continua a metterla in discussione, con un revisionismo che spesso finisce per avere il sapore addirittura del negazionismo.
Ormai, ritengo che sulla Resistenza e sulla Liberazione ci siano aspetti che dobbiamo considerare fermi e consolidati, così come ci vengono dai maggiori studi e dalle riflessioni più approfondite.
In questi anni, c’è stata una notevole elaborazione; gli storici hanno approfondito le loro ricerche; sono caduti alcuni remoti pregiudizi; noi stessi abbiamo perfezionato e affinato le nostre concezioni allontanandoci dal mito ed avvicinandoci alla Resistenza con maggiore laicità di quanto ci suggerirebbero la passione politica (in senso lato), il ricordo dei caduti e la consapevolezza dei valori in gioco.
La mia stessa Associazione, nella sua riflessione collettiva, considera come raggiunti alcuni traguardi, che ormai consideriamo come punti fermi.
Il primo: la Resistenza è stata un fenomeno nazionale. Contro ogni tendenza a considerarla come un fenomeno del Nord, abbiamo scavato, commissionato ricerche, promosso convegni sul contributo del Sud alla Liberazione. Alla fine, nel recente Convegno di Napoli, con la partecipazione di illustri storici e di studiosi di fama, abbiamo potuto raggiungere due conclusioni: che la Resistenza deve considerarsi a pieno titolo come nazionale, in quanto ha riguardato, in forme diverse, l’intero Paese; e che il termine abituale (“il contributo del Mezzogiorno alla Liberazione”) è sbagliato per difetto perché deve parlarsi di una vera “partecipazione”, considerando non solo la forte presenza di meridionali nella Resistenza del Nord ed il grande apporto anche di sangue dato da molti di loro, ma anche tutta quella serie di atti di protesta e di rivolta, contro tedeschi e fascisti che si è svolta dalla Sicilia alla Sardegna, alla Calabria, alla Campania alla Puglia e così via.
Il secondo: l’insistenza, per molto tempo quasi esclusiva sulla resistenza armata si è dimostrata, alla lunga, eccessiva perché c’è stata anche la Resistenza non armata e si è trattato di un fenomeno tutt’altro che irrilevante, anzi di una corposità e di una intensità numerica tale da stravolgere tutti i dati evidenziati. Questo non significa diminuire l’importanza della Resistenza armata, anche perché – come è stato rilevato di recente da uno storico illustre – la Resistenza non armata si sarebbe ridotta ad un’opera di semplice solidarietà umana se non avesse avuto il collegamento e il sostegno della lotta armata e non fosse stata partecipe di quel sentimento di libertà e di solidarietà che emerge come fondamento di tutta la Resistenza.
Il terzo: si parla spesso di “luci ed ombre” della Resistenza. Una semplificazione che ha bisogno di essere approfondita anziché continuare a valorizzare, come alcuni stanno facendo, solo le ombre, spegnendo le “luci”. Io non sono un “giustificazionista”, ma cerco sempre di capire. Sono convinto che qualunque fenomeno di resistenza, di reazione, di rivolta nel corso di una guerra con schieramenti complessi, può avere in sé anche contenuti di violenza; è l’effetto purtroppo, consueto di ogni guerra. Ma bisogna pur dire che le cosiddette ombre della Resistenza sono per lo più atti individuali, frutto di reazioni alla barbarie o addirittura di errori; ma in nessun caso riescono a scalfire il tessuto complessivo e connettivo della Resistenza, che in realtà non è fatta di “luci”, ma di una sola luce, splendente e magnifica, che è quella della sua morale e del suo obiettivo finale condiviso.
Ciò che sfugge ancora da alcuni è proprio questa dimensione collettiva globale e “morale”, per dirla con Pavone, che Calamandrei indicava come una sorta di impulso diffuso, generato “da una voce sotterranea” che indicava agli italiani di buona volontà la via della ribellione e del riscatto, appunto la Resistenza. Anche su questo dovremmo finalmente considerare raggiunto l’approdo, respingendo ogni tentativo di equiparazione con la violenza e la barbarie dei fascisti, con la ignominia orribile delle stragi nazifasciste, con i giovani torturati, fucilati ed esposti al pubblico per giorni, con le persecuzioni organiche, sistematiche programmate, degli ebrei, sulle quali ho letto con fortissima emozione proprio in questi giorni un importante libro di un storico docente all’Università Cà Foscari (Simon Levis Sullam) non a caso intitolato “I carnefici italiani”; e certo non si riferisce ai partigiani.
Come non considerare acquisito questo empito straordinario che spinse la parte migliore degli italiani verso il riscatto e la rinascita, con le armi o senza armi? Come non considerare il valore immenso delle scelte, del coraggio, delle volontà di appropriarsi del proprio destino, di fronte a un nemico potente ed a rischio della violenza, delle torture, della morte? Come accettare che venga ancora messo in discussione l’enorme valore di quell’incontro grandioso tra ideologie e credenze diverse, tra provenienze sociali e politiche differenti, perfino tra motivazioni talora distanti tra loro?
Sta proprio in tutto questo l’unica spiegazione che possiamo dare di quel fenomeno grandioso che è stata la Resistenza e di quello straordinario incontro (non “compromesso”, perché non è di questo che si trattava) avvenuto alla Costituente tra pensieri, aspirazioni totalmente diverse, alla ricerca dei punti comuni su cui ricostruire un Paese frantumato, assicurandogli un avvenire di democrazia e di libertà?
Infine: si è tanto dissertato sul termine usato in un noto libro della Resistenza (“Una guerra di popolo”) sostenendo da alcuni che, invece, si trattava di una minoranza, che il popolo era scoraggiato e silente e così via. Ma il problema era ed è quello di intendersi sulle parole e sul loro significato: se per guerra di popolo si intende che vi parteciparono tutti gli strati sociali del popolo italiano, non c’è possibilità di discussione, perché questa è la verità documentata. E tanto deve bastare per smetterla con la conta numerica e convincersi che popolo erano non solo i partigiani ma anche i militari che si ribellarono alla prepotenza dei tedeschi e popolo erano certamente anche i contadini e le contadine che aiutavano partigiani e fuggiaschi, a rischio della vita.
È ora, finalmente, che su questi punti si trovi un’intesa, tutti, ammettendo che questo è ciò che ci dice la storia d’Italia di cui quelle che ricordiamo sono pagine tra le più importanti e splendide.
Solo pregiudizi e posizioni preconcette ci separano da questo obiettivo. Cogliamo l’occasione del 70° per rimuoverli, isolando il revisionismo di maniera e le inutili e dannose speculazioni.
Solo così, approfittando dell’occasione del 70°, potremo evitarci eterne divisioni e contrasti. Che questo Paese abbia finalmente una storia almeno collettiva, in cui gran parte dei cittadini e tutte le istituzioni si riconoscano, sulla quale si costruiscano, come De Luna ritiene necessario, festività, monumenti e insegnamenti nelle scuole, è interesse di tutti. Spero che la celebrazione del 70° Anniversario possa servire non solo ad impedire l’oblio e sostenere la memoria, ma anche e soprattutto a rappresentare una svolta verso ciò che deve essere un Paese civile, orgoglioso della sua storia e delle sue vicende migliori, che ad alcuni possono anche non piacere ma sono ormai appartenenti alla collettività.
Una collettività che anche su questo, come sul Risorgimento, come sui nostri grandi poeti, i nostri pittori, i nostri musicisti, fondi la sua identità, percepibile e riconoscibile anche per i nostri giovani, fino al punto di recarne vanto anche quando vanno all’estero, spero sempre più spesso non a cercare lavoro ma ad approfondire esperienze, a crescere nel pluralismo delle idee, in un mondo senza più confini, nel quale fratellanza e solidarietà siano finalmente la base del vivere e il fondamento della pace.
Carlo Smuraglia