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Lavoro e governo, un futuro oscuro

Nella settimana che il Governo e tutta la stampa considerano dedicata al lavoro, qualche preoccupata considerazione è d’obbligo.

Se tutti concordano sul fatto che il lavoro è la vera priorità, come mai gli si dedica soltanto la prima settimana d’ottobre? Non è un po’ tardi, dopo mesi che l’ISTAT, implacabilmente, ci fornisce dati allucinanti sulla disoccupazione, sul precariato, sulle perdite economiche delle famiglie meno abbienti, sui problemi occupazionali dei giovani?
La seconda considerazione (che potrebbe sembrare rassegnata, ma non lo è affatto) si fonda sulla massima “meglio tardi che mai”; ma è chiaro che potrebbe, a malapena, soddisfarci se si affrontasse davvero e di petto quel complesso di problemi che noi pensiamo che rappresentino una priorità assoluta, in un Paese retto da un Costituzione che proclama che la Repubblica italiana “è fondata sul lavoro”. Purtroppo, non è così; il discorso sta vertendo sulle “regole” e su alcune questioni che - se risolte – non sarebbero in grado di creare un solo nuovo posto di lavoro. Si continua su una strada che parte da un presupposto completamente sbagliato: che la mancanza di investimenti, di sviluppo, di crescita, dipenda dalle rigidità del mercato del lavoro.

Ho scritto più volte che non è così, che i fattori realmente incidenti negativamente sono, semmai, l’eccesso di burocrazia, la corruzione, le mafie; che infine, su questo bisognerebbe lavorare per tentare di riportare l’economia su un terreno giusto e corretto. Purtroppo, sembrano parole al vento! Si procede, infatti parlando niente meno che di una completa “riscrittura dello Statuto dei Lavoratori”, di abolizione di quel che resta dell’ articolo 18, di maggiore elasticità nelle regole del lavoro.

In mezzo a tutto questo fragore di argomenti fuorvianti, ci sarebbe probabilmente, qualcosa da rettificare e migliorare, magari estendendo qualche diritto in più a quelli che non ne dispongono; ma questo non basterebbe a risolvere il problema di fondo, che presuppone scelte più ampie, di vera politica economica e del lavoro.
Bisogna dire, con forza, che la riduzione delle garanzie non aumenta i posti di lavoro, anzi costituisce un autentico attentato a quella dignità nel lavoro, che è uno dei temi ricorrenti nella Costituzione.

D’altronde, ci si era già messi sulla cattiva strada, portando il contratto di lavoro a tempo determinato ad un livello che un tempo sarebbe stato impensabile, accettando la tesi – sempre respinta nel passato – della non necessità di una causale che giustifichi il ricorso a questa tipologia di contratto e consentendone la ripetizione pressoché ad libitum. Si è così già andati oltre ogni limite, senza ottenere alcunché di risolutivo.

Adesso, la chiave di tutto sembra essere l’articolo 18, che non è un “feticcio” intoccabile, tant’è che è stato ampiamente “toccato”, sotto il governo Monti; ma ridurlo, come si vorrebbe, a qualche caso estremo se non eliminarlo del tutto, non serve a niente, solo – ripeto - ad eliminare una garanzia, che è fonte di sicurezza e di dignità, in nessun modo incidendo sulla situazione economica complessiva, nella quale predominano le piccole imprese, alle quali – come è noto – l’articolo 18 non si applica.

Ma non basta: si pensa anche a “toccare” un altro tema fondamentale, quello del divieto di demansionamento, un’altra norma, questa volta del Codice Civile, considerata da sempre intangibile, in quanto rappresenta una fondamentale garanzia contro gli eventuali abusi dei datori di lavoro. Si tratta di una disposizione diretta a tutelare la professionalità, la sicurezza e la dignità del lavoratore e dovrebbe essere interesse degli stessi imprenditori ragionanti quello di non metterla in discussione. Pretendere di mantenerla, per le stesse ragioni per cui è stata per lo più sottratta, finora, perfino alla discussione, non è il solito “conservatorismo”, di cui viene accusato chiunque si opponga a modifiche e riforme ingiustificate, ma è la contrapposizione doverosa all’attacco ad un sistema che andrebbe – semmai – esteso a tutti i tipi di lavoro.

Si impone anche un’altra considerazione. Se questo tema è di grande importanza e rappresenta una priorità, sarebbe logico aspettarsi una discussione molto ampia in seno ai partiti, ai gruppi parlamentari, al Governo e infine al Parlamento. Al contrario si pretende di procedere in tempi ristrettissimi, la questione viene liquidata nei partiti (quelli che lo fanno) in un paio d’ore di dibattito, nel Governo non c’è discussione perché ciò che pensa il Presidente del Consiglio non si discute, ai gruppi parlamentari viene lasciato uno spazio oltremodo ristretto; e infine al Parlamento, sede privilegiata per la discussione, verrà lasciato pochissimo tempo.

Erano già previsti tempi ristretti, ma ora essi diventano ristrettissimi perché il Governo ha deciso di porre la fiducia sul Jobs Act; il che fa cadere gli emendamenti e praticamente annulla la discussione. Questo è gravissimo in generale, ma lo è ancora di più in relazione alla materia che si sta trattando. Ancora una volta, tutto è subordinato ai tempi prefissati dal Presidente del Consiglio, che vuol portare alla riunione europea di domani un altro scalpo: questa volta quello dell’intero sistema del diritto del lavoro. E’ spiacevole, ma non ci si può esimere dal ricordare che anche il dialogo con le parti sociali è stato ridotto ad un livello ridicolo: un’ ora di confronto non solo su questo, ma sui tanti temi che in questo momento sono sul tappeto.

Voglio aggiungere un ultimo argomento, amaro e preoccupato: il voto di fiducia si svolge su una legge delega la quale, per indicazione costituzionale (art. 76) dovrebbe essere precisa, analitica e dettagliata (“per oggetti definiti”). Come tutti i commentatori hanno rilevato, questa delega è di una estrema genericità e vaghezza, quindi sostanzialmente illegittima, in quanto conferisce al Governo, che dovrà emanare i Decreti attuativi, un potere immenso, indiscriminato e incontrollabile. Credo, quindi, che la preoccupazione espressa all’inizio abbia pieno fondamento.

Se dovessi esprimere ancora una speranza, sarebbe quella che si torni sulla retta via, si intensifichi il confronto, si lasci ampio spazio al dibattito parlamentare e non tanto sulle questioni di cui più sopra si è parlato, quanto e soprattutto su un vero programma di sviluppo e di crescita e su un vero piano di rilancio del lavoro, quello dignitoso e sicuro di cui parla la nostra Costituzione. Ma è una speranza, ben poco fondata sulla razionalità: la quale ci fa presumere un esito che noi riteniamo negativo. Così, i tempi diventeranno ancora più oscuri.

Carlo Smuraglia, presidente nazionale Anpi

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