Roberto Lepetit
Fin da giovanissimo è alla guida dell’azienda chimica fondata nel 1868 dal nonno. La famiglia Lepetit gravita tra Francia e Svizzera prima di stabilirsi in Italia. In seguito la Lepetit diventa Ledoga, acronimo di Lepetit, Dollfus e Gannser, gli altri soci. E’ un grosso gruppo, con 16 stabilimenti e una rete commerciale internazionale, partito dai coloranti e poi sempre più orientato sui farmaci, soprattutto durante la gestione di Roberto. Un’azienda che Lepetit governa con piglio da capitano d’industria, centrato, diremmo oggi, sull’innovazione. Il fascismo non gli piace, prende la tessera del partito per necessità legate ai suoi incarichi negli organismi imprenditoriali di rappresentanza, ma nel 1942 viene espulso dai Fasci per la sua evidente e mai nascosta insofferenza e avversione.
Dopo l’8 settembre Lepetit non esita un istante a decidere da che parte stare, una scelta nella quale mette tutto se stesso, le sue risorse e anche la sua impresa.
Lepetit aderisce al partito d’azione e collabora con il Cln in molti modi, inviando soldi, mezzi, documenti, medicinali. A Garessio si occupa di aiutare 360 ufficiali jugoslavi fuggiti da un campo di prigionia che si nascondono nelle casette sparse nei boschi dove vengono essiccate le castagne da cui l’azienda estrae il tannino. Porta lui stesso ai fuggiaschi cibo e indumenti, aiuta gli ufficiali a scappare in Svizzera o li mette in contatto con la Resistenza. Nel frattempo nella zona ci sono continue scorribande tra tedeschi e partigiani, Lepetit è in contatto diretto con i comandanti delle brigate e offre il suo supporto logistico. Il suo impegno non diminuisce quando si sposta vicino a Milano, perché per lui la situazione in Piemonte si è fatta pericolosa. Tra mille azioni rischiose, Lepetit collabora alla missione Gbt, dal nome di Giovan Battista Tolleri, capo dei servizi segreti badogliani in missione nell’Italia occupata, e ospita nei pressi di una sua villa una radio di collegamento con gli alleati.
Tutte le testimonianze restituiscono l’immagine di un uomo senza paura. Fa costruire 100mila cappelli da prete, ossia grossi chiodi per azioni di sabotaggio dei convogli tedeschi. Si occupa di trasporto di armi e di partigiani feriti. In un caso dà addirittura a un fuggiasco un suo documento come copertura. Un coraggio che a volte rasenta l’imprudenza e non tutti nella sua azienda, spesso da lui coinvolta in azioni di supporto, condividono. Il suo arresto avviene il 29 settembre 1944, nella sede di Milano dell’azienda progettata dall’amico Giò Ponti, in via Carlo Tenca. Passa prima all’Hotel Regina, il comando delle SS, dove viene interrogato duramente, poi a San Vittore. In molti sembrano mobilitarsi per tirarlo fuori. Ma senza esito. Lepetit viene trasferito al campo di Bolzano dove aiuta sempre tutti come può e si dà da fare per creare un dispensario di farmaci anche nella speranza che questo gli permetta di non andare “a Nord”. Ma ancora una volta non vanno a buon fine i molteplici tentativi per liberarlo. Il 21 novembre 1944, viene trasferito a Mauthausen e poi a Ebensee, dove muore probabilmente di tubercolosi.
Ad Ebensee nel 1948 la moglie Hilda fece realizzare da Giò Ponti una croce monumentale dedicata, come recita l’iscrizione, “Al marito qui sepolto compagno eroico dei mille morti che insieme riposano e dei milioni di altri martiri di ogni terra e fede…”.