Giovanni Battista Pastorelli
Il suo nome di battaglia durante la Resistenza era “Sferra”. Superato felicemente il traguardo dei 90 anni, una sua nipote, Tatiana Marchisio, ha voluto intervistarlo per il mensile dell’ANPI “Patria indipendente” che ha pubblicato la “chiacchierata” a più voci (visto che ha reso la sua testimonianza anche la moglie di Pastorelli) titolandola: “Dimmi nonno: perché sei entrato nella Resistenza?”
Alla domanda Pastorelli ha risposto semplicemente: “Ritenevo fosse la scelta giusta. Ci siamo presentati a decine al distaccamento della II Divisione “Felice Cascione”. Pensa che a Carpasio nessuno ha scelto di presentarsi al comando di polizia o al comando tedesco".
Il racconto di Pastorelli prosegue con la spiegazione delle ragioni della scelta del nome di battaglia, con la descrizione minuziosa di come i partigiani fecero saltare presso la via Aurelia un camion carico di carburante destinato ai tedeschi. Per il commissario di battaglione della Cascione il giorno più brutto è stato quello del 31 gennaio 1945.
“Quel giorno - ha raccontato alla nipote – era stata fissata una riunione con tutti i commissari di distaccamento, di battaglione e di brigata. Eravamo tutti riuniti in un casone in località “i Cuni” in Alta Val Prino, tra Tavole e Villa Talla. All’alba ci siamo ritrovati circondati; la sentinella ci ha allertati dicendo che si sentiva parlare tedesco. Ci siamo alzati al volo dai nostri letti di fortuna e ci siamo ritrovati improvvisamente a sparare da una distanza di 20, 30 metri…Tutti sparavano all’impazzata. Quel giorno sono morti 7 partigiani in un colpo solo. Io con altri sono riuscito a scappare: correvi e ti giravi per sparare. Con me c’era un russo; correvamo a zig zag per non farci ammazzare. Il problema era non farci prendere vivi. Quel russo l’hanno preso poi e fucilato. Dopo la fuga sono rimasto nascosto per un po’ e poi sono tornato a Carpasio”.
Qui interviene la nonna che racconta di come sia riuscita ad evitare di essere violentata da un tedesco e dice delle donne del paese stuprate. Racconta anche del giorno più bello: quello della Liberazione, sette mesi dopo che si era sparsa la voce, infondata, che gli americani erano arrivati a Ventimiglia.
Ed oggi? “Purtroppo siamo rimasti in pochi; ma con chi c’è ancora ci vediamo, andiamo alle commemorazioni e andiamo a parlare nelle scuole”.