Il rivoluzionario
Valerio Varesi, Ed Frassinelli, 2011, pp. 468, euro 18,50
Con “Il rivoluzionario” (Frassinelli, 2013) Varesi riprende il percorso di autore impegnato ad interrogare le coscienze individuali e collettive. In questo caso lo fa proseguendo idealmente la storia avviata con “La sentenza” (Frassinelli, 2011), il precedente romanzo che attraversava la Resistenza e si concludeva con la Liberazione.
Dall’Appennino parmense il racconto si trasferisce nella Bologna capitale rossa ed inizia all’indomani del 25 aprile, in uno dei luoghi più emblematici per declinare la storia dell’Italia e le tante storie dei militanti del PCI (di quello che era il più potente partito comunista dell’Europa occidentale) racchiuse nel vissuto dei tre personaggi principali: il protagonista, Oscar, ex partigiano iscritto al partito, “rivoluzionario” per antonomasia, irriducibile sognatore di un mondo più giusto; Italina, la moglie e compagna di militanza, voce attenta e sensibile di una coscienza politica e morale; Dalmazio, il figlio, che raccoglie l’eredità ideale paterna e diviene interprete dei bisogni e delle contraddizioni della generazione maturata negli anni Settanta.
Intorno ad essi ruotano figure minori dotate però di grande spessore, come i compagni Sandoni e Tansini, che contribuiscono ad evidenziare i tratti dei protagonisti e a rafforzare l’intreccio.
Luoghi, avvenimenti e personaggi sono definiti con efficacia e abilità narrativa, dalle descrizioni degli “esterni” agli aspetti psicologici, attraverso una scrittura essenziale, ritmata, e con opportuni adeguamenti di registro nei dialoghi rispetto alla diversità di caratteri e situazioni.
Dai ‘regolamenti di conti’ del dopo Liberazione alla guerra fredda, dal Sessantotto agli anni di piombo, dall’uccisione di due figure emblematiche, Pasolini e Moro, alle bombe di piazza Fontana e della stazione di Bologna, il filo che lega le vicende storiche a quelle individuali di Oscar, Italina e Dalmazio è quello della tensione ideale, misurata attraverso un impatto tra utopia e storia, miraggio e realtà, che alla fine lascia ai personaggi e agli stessi lettori un sapore amaro di sconfitta, compensato tuttavia dalla necessità di credere in una prospettiva migliore.
Se da un lato si ammette tragicamente: “Già agonizzante, la rivoluzione morì suicida”, dall’altro si afferma illusoriamente: “Verrà il tempo che gli uomini da cani torneranno lupi. Liberi e padroni di sé”. Fra tali posizioni e sentimenti emerge una contraddittorietà non solo concreta e tangibile, ma pure di natura poetica, che in rapporto all’autore si potrebbe interpretare con le parole di Cechov: “Lo scrittore è una persona che non risolve problemi, ma li pone”. In questo senso va visto l’impegno di Varesi e il suo continuo interrogare e interrogarsi.
Quali domande, ad esempio, quali paragoni e relazioni tra passato e presente possono suscitare considerazioni come: “Gli italiani non si governano con i ragionamenti, ma con le emozioni”?
Oppure giudizi politici taglienti e provocatori sulla svolta riformista del PCI, “imbolsito come un animale in cattività” e gonfiato “di funzionari simili a cardinali e monsignori con un debole per le prediche”, o sulle cooperative, “che a forza di mettere dentro dei reduci della politica” rischiano di finire “col culo per terra lasciando nella merda molti soci…”.
Si tratta forse di espressioni eccessive, ma fino a un certo punto, e non del tutto immotivate, né totalmente sconfessate da una memoria diffusa. Sempre in tema di forzature, quando l’autore fa arrivare Oscar, il protagonista, a Reggio Emilia, il 7 luglio del Sessanta, e nel tragico epilogo di quella giornata lo fa incontrare con un giovane Prospero Gallinari impegnato a distribuire volantini, si spinge oltre l’evento storico, ma introduce un effetto narrativo e un contrasto che stupiscono il lettore provocando un immediato contatto, o meglio un corto circuito, tra il Gallinari brigatista rosso e la sinistra.
Per quanto riguarda il contesto di genere, “Il rivoluzionario” di Varesi strizza l’occhio al romanzo storico (sebbene il periodo di riferimento sia molto vicino al nostro) e in certa misura al romanzo di formazione, in particolare verso la suggestione letteraria della conradiana “linea d’ombra” (citazione ripetuta nel testo ed intesa quale confine e passaggio esistenziale verso una maggiore consapevolezza). I fatti, insieme ai personaggi reali nella loro collocazione temporale, si sommano all’invenzione suggerendo associazioni, riflessioni e interrogativi che riportano al vissuto dell’oggi, ed è in questo senso che il romanzo può definirsi “storico”.
Dopo aver completato il lungo percorso tracciato dall’autore, dalla primavera del ’45 all’estate dell’80, girata l’ultima pagina, la 469, dove Italina afferma: “A nostro modo continuiamo a tener viva la fiammella e arriverà un giorno che verrà buona per appiccare di nuovo l’incendio…”, si può pensare alla riga finale di “Sinistrati”, la storia sentimentale di una catastrofe politica scritta da Edmondo Berselli, che offre un delicato, ironico omaggio alla sinistra e modificando una famosa citazione di Totò conclude: “Sinistri si nasce. E anch’io, modestamente, lo nacqui”.
Non resta quindi che ringraziare Varesi per aver proposto un originale, emozionante viaggio tra i “Sinistri” e per aver lasciato, tra le righe, quel qualcosa di necessario che, dopo la caduta della speranza in un’ideologia, potrebbe essere definito come l’irrinunciabile speranza in un ideale.
Giovanni Guidotti