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Cosa ci insegna piazza Fontana

Nei giorni scorsi, un grande musicista, Jordi Savall ha detto una frase bellissima.
“Senza memoria non c'è giustizia, senza giustizia non c'è cultura, senza cultura non c'è futuro”.
Una frase che riassume perfettamente, quarantasei anni dopo, il senso della nostra presenza il 12 dicembre in quella piazza Fontana che ha vissuto una tragedia terribile e apparentemente inspiegabile.

Per ricordare, ma anche per chiedere, pretendere, giustizia e verità. Altrimenti, non noi, ma l'intera città e l'intero Paese non potranno aspirare ad un vero futuro.
Il 9 maggio 2009 (cioè sei anni e mezzo fa) il Presidente della Repubblica di allora, nel “Giorno della Memoria” dedicato alle vittime del terrorismo, attribuì particolare attenzione alla strage di Piazza Fontana, definendola “l'avvio di un'oscura strategia della tensione” e ricordando con essa “una lunga e travagliatissima vicenda di indagini e di processi, dai quali non si è riusciti a far scaturire un'esauriente verità storica”.

Ricordò, peraltro, che di quella strage e delle altre del dopo guerra, fu identificata l'ispirazione politica ma non tutte le responsabilità di ideazione ed esecuzione. Precisò inoltre che, componente non secondaria di quella trama, fu l'attività depistatoria di una parte degli apparati dello Stato, a sua volta non determinata con precisione sul piano della responsabilità.

Con altrettanta precisione affermò che “è parte dolorosa della storia italiana anche quanto è rimasto incompiuto nel cammino della verità e della giustizia”.
Importanti riconoscimenti, che culminavano nell'invito ad una riflessione collettiva sullo stragismo, assieme alla memoria delle vittime.
Noi, quella riflessione collettiva, la facciamo da anni, e non solo il 12 dicembre, perché siamo convinti che potremo essere tranquilli solo quando verità e giustizia, saranno raggiunte compiutamente.

Abbiamo fatto di più; siamo stati vicini alle vittime (che ormai consideriamo affettuosamente “nostre”), alle Associazioni dei famigliari e con loro abbiamo sperato continuamente in qualche ultimo brandello di verità, se non di giustizia. Ma non abbiamo fatto molti passi avanti, a dire il vero, se non per consolidare la memoria e fare conoscere di più la tragica vicenda di Piazza Fontana, Ma poi gli spiragli di verità giudiziaria sono rimasti sempre più ridotti.
È dunque lecito porre una domanda, forse dura, ma necessaria: ma lo Stato, questo Stato, ha partecipato a quella riflessione collettiva cui ci aveva invitato il Presidente Napolitano? Bisogna essere sinceri: bisogna riconoscere che non è stato così.

Nessuno di coloro che portano la responsabilità di aver reso difficili, o addirittura deviato le indagini se le è assunte; nessuno, o quasi, è stato punito per ciò che aveva compiuto per intralciare il cammino della giustizia. Non i Magistrati, che trasferirono il processo a mille chilometri di distanza, non il Questore che fece dichiarazioni incredibili, che molti di noi ricordano ancora, non il Ministro degli interni che indicò perentoriamente la pista anarchica, come l'unica possibile; non coloro che, a dir poco, non fecero nulla per evitare la tragica caduta di Pinelli da una finestra della Questura.
Anche là dove ottenere giustizia era ormai impossibile, la riflessione poteva essere fatta. Si poteva, si doveva, creare un collegamento fra le stragi di quegli anni e i comportamenti devianti che le accompagnarono.

C'è un'altra frase, molto forte, del Presidente Napolitano che voglio ricordare, laddove egli dice che di tutto ciò che “è rimasto incompiuto nel cammino della verità e della giustizia”, lo Stato democratico “porta su di sé questo peso, anche per ogni ambiguità e insufficienza di risposte alle aspettative ed agli appelli dei famigliari delle vittime”.
Questo peso continua a portarlo ancora oggi, perché all'assunzione di responsabilità del Capo dello Stato, ha fatto seguito ben poco, perfino sul terreno della verità storica.
C'era stata promessa l'abolizione del segreto di Stato. L'abbiamo avuta, ma solo formalmente, perché se già nel 2007 era stato formalmente abolito il segreto di Stato, il primo regolamento fu emesso solo quattro anni dopo. C'è stata poi una direttiva del Governo, del 22 aprile 2014, che ha declassificato gli atti relativi ai fatti di Ustica, Peteano, Piazza Fontana, e Stazione di Bologna. Ci sono stati provvedimenti positivi, ma non esaustivi, della Presidenza della Camera dei Deputati.
Tuttavia tutto questo ha aperto la strada solo all'accesso a pochi documenti rilevanti. La verità è – come è stato più volte osservato – che non basta declassificare gli atti del Parlamento, ma bisogna poter disporre degli elenchi degli atti secretati dai Ministeri, dai Corpi militari, dalla Polizia e dalla Finanza. Sono questi uffici, questi Corpi a dover rendere noto tutto ciò di cui dispongono, quantomeno per il lavoro degli storici.

A costoro è ora resa possibile la consultazione di molti atti giudiziari, in virtù dell'iniziativa e della collaborazione attiva delle Associazioni dei famigliari delle vittime. Ma anche ammesso che tutto si apra, finalmente, alla consultazione, non potranno essere solo gli storici, di propria iniziativa e con i pochi mezzi di cui dispongono i tanti Istituti esistenti in Italia, a fare complicate e difficili ricerche.
Ed allora, se questo Stato democratico vuole scrollarsi di dosso quel peso doloroso di cui parlava il Presidente della Repubblica, deve intervenire con provvedimenti e mezzi finanziari, non solo per irrobustire quella memoria, di cui tutti parlano, che peraltro sarebbe destinata ad estinguersi se non ci fossero le Associazioni democratiche a coltivarla, ma anche per sostenere e incoraggiare gli studi e le ricerche.

Perché c'è ancora molto da fare e da approfondire; collegare ciò che si conosce delle varie stragi, esplorare i documenti raccolti nei processi, forse non sufficienti per identificare tutte le responsabilità individuali, ma utilissimi, invece, per cogliere in essi le motivazioni, così come le connivenze, i dirottamenti, le deviazioni.
Vogliamo dire, ancora una volta, che noi ci siamo, c'è l'ANPI, ci sono le Associazioni partigiane, ci sono le Associazioni dei famigliari delle vittime, ci sono gli Istituti storici dell'età contemporanea; ma questo non basta a creare quella riflessione collettiva, quella ricerca spasmodica e unanime, della verità. Ed è proprio questo che oggi chiediamo, ricordando le vittime di Piazza Fontana e il loro famigliari.

Sia lo Stato ad aiutarci ad aprire tutti gli armadi, anche quelli più squisitamente politici, ed a coltivare una memoria attiva che serva a comprendere il passato, proprio per evitare ogni rischio – cito ancora il Presidente Napolitano – che “tornino i fantasmi del passato”, o meglio ancora, come io direi, forse con minor prudenza, che la storia si ripeta.
Prima di concludere, intendo dedicare alcune parole al nuovo Prefetto di Milano, persona degna e attenta, come si è visto durante la sua permanenza a Milano come Questore. Egli ha pronunciato, in un'intervista, parole di attenzione agli spazi di discussione e di confronto e si è dichiarato convinto che si debba ripensare al rapporto con la famiglia Pinelli. Ne prendiamo atto, ed apprezziamo, anche se non si può non ricordare che il primo passo fu compiuto, sei anni fa, dal Presidente della Repubblica e ad esso non seguirono molti atti tangibili. Il nuovo Prefetto è parte dello Stato, di questo Stato, che ha su di sé, ancora un peso tremendo. Io mi auguro che anch'egli, dal suo posto autorevole, ci aiuti a ricostruire la tragica storia di quegli anni ed a ricercare, indefessamente e collettivamente, la verità. Soprattutto, poiché sulla matrice politica non c'è più alcun dubbio possibile, questo Stato si adoperi per contenere e respingere ogni tentativo di esaltazione del fascismo, per far conoscere cosa è stato il fascismo durante il ventennio di dittatura, durante il periodo della Resistenza, negli anni terribili delle stragi di Bologna, di Brescia, dei treni, di Piazza Fontana.
Ci dimostri, cioè, questo Stato di essere finalmente quello Stato antifascista che è delineato dalla Costituzione. Insomma si utilizzi il confronto, la riflessione, la ricerca per due esigenze fondamentali: cercare davvero la verità sul passato, creare le condizioni perché i drammi che si sono verificati non possano tornare mai più.

Concludo. In ogni caso è fondamentale che si ravvivi e si renda sempre più attiva la memoria sulla terribile scia di sangue che ha percorso l'Italia in questo dopoguerra.
Si informino, soprattutto, le generazioni più giovani, cui spetterà - in futuro - la direzione politica e sociale del Paese. Troppo poco si fa, anche nella scuola, per informarli sul passato, per arricchire le loro conoscenze. Troppo spesso si indulge in giudizi negativi sui giovani, quando poi siamo noi debitori - nei loro confronti – delle insicurezze per il futuro, della carenza di informazioni e di spiegazioni anche su fatti fondamentali, delle perduranti diseguaglianze, che non siamo riusciti ad eliminare.
Si è parlato, l'ho detto poco fa, della necessità di una “riflessione collettiva”, ma come si fa a realizzarla se la scuola non fa fino in fondo il suo dovere di creare “cittadini attivi”, se gli organi di informazione dedicano pagine e pagine a fatti insignificanti e poi dimenticano, come è accaduto – per molti – anche oggi, di spiegare e informare su ciò che è accaduto, tragicamente, in Piazza Fontana, quarantasei anni fa?

Si apra, dunque, la “riflessione collettiva” invocata dalla più alta carica dello Stato; ma è fondamentale che ad essa partecipi - con sincerità, chiarezza e assunzione di responsabilità – per primo lo Stato e poi si faccia di tutto perché di essa facciano parte i giovani, che sono il futuro del nostro Paese.
Ci si muova, finalmente, in questa direzione e sarà un gran bene per la nostra democrazia. Posso assicurare, fin d'ora, che l'ANPI, che c'è sempre stata, continuerà a impegnarsi e ci sarà sempre, in prima linea.

Carlo Smuraglia, presidente nazionale Anpi

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