La mimosa, il simbolo povero della giornata della donna
Era la fine della Seconda guerra mondiale quando in Italia si festeggiò nuovamente la Festa della donna, un appuntamento praticamente inedito, che aveva fatto la sua comparsa nel 1922 per essere poi presto vietato dal fascismo. E l'Italia era un paese allo stremo, affamato di futuro, che stava ricominciando a vivere e a curare le sue ferite. Le militanti dell'Unione donne italiane (Udi) si prodigarono così intensamente nell'organizzare quell'8 marzo del '46, dandogli un respiro nazionale, affinché fosse il segno di una nuova era di diritti.
A Roma fin dalla Liberazione, avvenuta nel giugno '44, gli aderenti ai partiti che avevano contribuito alla Resistenza si industriarono per ricucire tessuti sociali e politici atrofizzati dalla dittatura, per immaginare il Paese del domani aprendo riflessioni e dibattiti sulla stampa ormai libera di circolare. Fra quei fogli vi era anche 'Noi donne', voce dell'Udi, il cui primo numero venne stampato in clandestinità a Parigi nel 1937, per iniziativa delle antifasciste esuli oltralpe.
Ricordando i primi numeri che uscirono nella capitale Nadia Spano, antifascista, fra le fondatrici dell'Unione e di 'Noi donne' - che diresse fino al '45 - scriveva: “Può sembrare strano il fatto che accanto alle rivendicazioni del voto alle donne, problema di grande valore politico, sociale, di costume, si associassero richieste minute per superare lo stato di emergenza. Credo che fosse inevitabile: le famiglie vivevano in condizioni drammatiche, i problemi del quotidiano urgevano, dovevamo in ogni occasione farcene carico”. E tuttavia “le donne non volevano dimenticare, ma erano stanche di orrori, volevano guardare avanti, costruire una vita che fosse diversa e tuttavia che tornasse ad essere normale, che non fosse comunque dominata dalle assenze, dalle provazioni e dalla paura”.
Per tale motivo la Festa dell'8 marzo 1946 non poteva che incarnare questa Italia libera, della pace, punto di inizio di una nuova fase della storia femminile. Quella giornata rappresentò un momento aggregativo e identificativo forte, gioioso e combattivo insieme.
In quell'occasione la mimosa venne scelta quale simbolo. Il motivo è semplice: “Nei dintorni di Roma fioriva abbondante e poteva essere raccolta senza costi sulle piante che crescevano selvatiche”, spiega Marisa Rodano nel suo libro “Memorie di una che c'era”.
Una pianta da inizio primavera, popolare, semplice, vitale con il suo giallo sfacciato. Una pianta che quella scelta, pratica, ha trasformato nel tempo in un bene di consumo quasi di lusso.
È innegabile infatti che si sia andato sempre più perdendo il senso della giornata dell'8 marzo da quel nemmeno tanto lontano dopoguerra, riducendola ad una festa commerciale che i più associano a San Valentino, facendo la fortuna di fioristi, ristoranti e spogliarellisti.
Una festa nata negli Stati Uniti nel 1909, il 28 febbraio, quando il Partito socialista americano decise di dedicare un giorno in ricordo dello sciopero contro le condizioni di lavoro delle lavoratrici tessili di New York. Un'iniziativa che il congresso internazionale socialista di Copenhagen assunse, in onore al movimento per i diritti delle donne. La prima Giornata internazionale della donna venne così celebrata il 19 marzo del 1911 in Austria, Danimarca, Germania e Svizzera, per reclamare, accanto al diritto di voto, migliori condizioni lavorative e la fine delle discriminazioni. Strategica come strumento di protesta contro la Grande Guerra, venne infine scelta dalle popolane russe come momento per la discesa in piazza, al grido di “Pane e pace”, nella rivoluzione di febbraio (marzo per il calendario gregoriano) del 1917.
In Italia la Festa della donna venne celebrata la prima volta nel 1922 per iniziativa del neonato Partito comunista, ma fu dal 1945 in poi che assurse a simbolo di una questione di genere che rivendicava attenzione grazie a donne tenaci quanto lungimiranti, le quali seppero porre problematiche e suggerire risposte. E questo dovrebbe ancora rappresentare la Festa della donna: un'occasione di riflessione e di rivendicazioni quanto mai necessarie oggi, nell'attuale crisi sociale, economica e politica, dove il diritto alla maternità è un privilegio di chi ha contratti dignitosi; dove i lavori condannati al precariato sono quelli con maggiore impiego di personale femminile: servizi, assistenza, educazione; dove il matrimonio e il ruolo da casalinga sembrano gli unici orizzonti desideraibli o quanto meno possibili per il “secondo sesso”.
Un giorno all'anno da cui partire per riacquistare consapevolezza, reimparare l'aggregazione, la costruzione e, soprattutto, la solidarietà.
Gemma Bigi