1946, i bimbi dei treni della felicità
La storia dei bambini dei treni della felicità è diventata un film-documentario per la regia di Alessandro Piva, distribuito da Cinecittà Luce, che in questi mesi sta riscuotendo un buon successo di pubblico attraverso anche presentazioni per le scuole, grazie anche al'accoglienza ottenuta alla 68° Mostra del Cinema di Venezia nella sezione “Controcampo italiano”.
Una fatica iniziata nel 2002 e perseguita con tenacia e passione da Piva.
Alessandro, perché raccontare oggi questa storia?
«Sicuramente è stato fondamentale il modo in cui questa storia mi si è presentata, non attraverso un libro ma infilata in un racconto, quello di Severino Cannelonga. Mi ha affascinato per l'intensità e la dovizia di particolari con cui Severino me ne rendeva partecipe e istantaneamente ho deciso di farne un film. Poi la realizzazione del progetto ha avuto i suoi tempi, dal 2002 al 2011, anche per l'assenza di finanzimaneti. Sono stato dunque rallentato ma questo ha permesso al documentario di venire approfondito, e ha permesso di concluderlo e presentarlo al pubblico nel momento giusto, ora che c'è attenzione per questi temi, come ha dimostrato l'accoglienza di Venezia. È uscito nel periodo degli sbarchi di Lampedusa e mentre l'Italia sta attraversando l'acme di una crisi che con queste modalità non si vedeva da decenni. Credo che il pubblico avesse voglia di approfondire temi del genere, di riscoprire che come paese l'Italia ha spalle larghe e radici ben piantate nella cultura dell'accoglienza.
È una storia che nasce dai valori della Resistenza, da quel senso pratico, da quella tenacia ed efficacia.
Viaggiando per presentare il documentario ho notato e noto quanto questa storia rimanga nell'immaginario delle persone, e mi aspetto che possa succedere qualcosa attorno a questa vicenda, che si diramino altri progetti, anche perché merita di essere approfondita.
Una mia grande soddisfazione è di aver fatto in tempo, come non sempre accade, a raccogliere la memoria di tanti protagonisti prima che si perdesse. È un contributo che ritengo importante.»
Accanto al lavoro di Alessandro Piva, un affresco a livello nazionale di questa storia, Giovanni Rinaldi, che è stato coivolto da Piva nella raccolta delle testimonianze, ha pubblicato un libro, “I treni della felicità”, sull'esperienza dei bambini pugliesi di San Severo.
Giovanni Rinaldi racconta così il suo incontro con questa storia:
«Sono rimasto affascinato, perché sa talmente di fantastico per la realtà in cui vivamo oggi che scoprire che siamo stati qualcosa di meglio mi dà ottimismo. I testimoni incontrati non sono “passato” ma sono italiani di oggi, a cui nessuno aveva chiesto di raccontare. Ascoltarli fa capire che hanno solo aspettato qualcuno per parlare di un'esperienza che sanno importante ma che pensavano non si volesse conoscere. Un esempio è il caso di Americo, bambino accolto e rimasto poi a vivere ad Ancona. Le sue due figlie certo conoscevano la storia del padre, non era inedita, ma in famiglia era stata forse poco detta. Quando è arrivata la troupe, lo scrittore, la Mostra del Cinema di Venezia per Americo hanno capito che la sua “piccola” storia era parte di una decisamente sraordinaria, e comprenderlo ha cambiato il loro rapporto con il padre, il modo di vederlo.
Questo è avventuo sempre, con ogni testimone e la sua famiglia. Ho voluto raccontare anche questo nel mio libro.
Scrivere “I treni della felicità” è stato importante per dire cosa ho provato io nell'incontro con questa vicenda e per raccontare le persone che ho avuto di fronte; per trasmettere la modernità di questo racconto.
Non è infatti solo una storia di sessant'anni fa. Scrivendo, incontrando le persone, non ho fatto archeologia ma ho raccontato questa storia oggi e per oggi, cominciando da che cosa ha significato per me incontrarla ora.»
(g.b.)
Trailer “Pasta nera”
http://www.youtube.com/watch?v=8LysqpaXscI
I vecchi nelle campagne ancora oggi affermano che dove mangia uno possono mangiare in due. È una frase elementare, emblematica di quella cultura contadina dell'ospitalità che passa dal cibo, dalla tavola luogo di incontro e condivisione sereno, gioviale. Un modo d'essere talmente naturale che spiega come mai ci si sia dimenticati, a livello storiografico come politico, di una delle pagine migliori della ricostruzione dell'Italia dopo l'occupazione nazifascista e la guerra: quella dei “treni della felicità”. Un'esperienza che salvò migliaia di bambini da un destino di povertà, malattia e sfruttamento.
Una storia commovente, esaltante, che lo scrittore Giovanni Rinaldi e il regista Alessandro Piva hanno riscoperto e ricostruito con passione, attraverso la raccolta di testimonianze per il film-documentario “Pasta nera”, la cui genesi è narrata nel libro “I treni della felicità” di Rinaldi.
Era l'inverno del 1945. L'Italia da nord a sud aveva sofferto per i bombardamenti, la miseria e per la violenza degli eserciti stranieri, nemici o alleati che fossero; un'Italia stremata, affamata, ma con un'incredibile voglia di rinascita e fame di futuro.
Era un'epoca di emergenze per far fronte alle quali, immediatamente dopo la Liberazione, in ogni città sorgevano comitati per risolvere i problemi contingenti come la distribuzione dei viveri, lo sgombero delle macerie belliche, la tutela dell'infanzia. Tanti infatti i bambini abbandonati a se stessi, orfani o, come in gran parte del meridione, residenti in zone distrutte dalle bombe, da calamità naturali, soggette ad epidemie, dove la fame e la disoccupazione erano quotidianità.
A Milano Teresa Noce, battagliera dirigente comunista e partigiana da poco rientrata dal campo di Ravensbrük, intuisce che solo un gesto di solidarietà può risolvere almeno temporaneamente la drammatica situazione di bisogno dei bambini. Con ciò che rimane dei Gruppi di difesa della donna, poi confluiti nella nascente Udi – Unione donne italiane, la Noce chiede ai compagni di Reggio Emilia, realtà prevalentemente agricola e quindi con maggiori risorse alimentari rispetto a Milano, di ospitare in quei mesi alcuni bambini.
«La risposta fu al di là di ogni legittima speranza. – Si legge nella prefazione di Miriam Mafai a “I treni della felicità” – Tanto generosa che si decise di estenderla e radicarla nel Mezzogiorno (…) Furono trasferiti così, nei due inverni immediatamente successivi alla fine del conflitto, alcune decine di migliaia di bambini che lasciarono le loro famiglie per essere ospitati da altrettante famiglie contadine, nei paesi del reggiano, del modenese, del bolognese. Lì vennero rivestiti, mandati a scuola, curati».
Ma quelle donne, che avevano tessuto la Resistenza e svezzato la Repubblica, non si fermarono raggiunto il loro primo obiettivo. Così, dal 1945 al 1952, anni duri per tutto il Paese, furono ospitati nel centro-nord ben 70.000 bambini, grazie anche all'appoggio del Pci, dei Cln locali, delle sezioni Anpi, delle amministrazioni e della popolazione in genere. Un numero sorprendente.
Alessandro Piva e Giovanni Rinaldi hanno incontrato quasi per caso questa storia. Mentre stavano svolgendo ricerche sulle lotte branciantili in Puglia sono venuti a conoscenza dello sciopero di San Severo in provincia di Foggia, nel 1950, uno sciopero che ebbe conseguenze drammatiche con l'incarcerazione di 180 manifestanti. Molti arrestati erano marito e moglie i cui figli di fatto si trovarono soli, in una realtà dove anche la solidarietà umana era messa a dura prova dal niente posseduto da ogni famiglia. Questo dettaglio incuriosì gli autori che scoprirono così che circa 70 di questi “figli della rivolta” vennero mandati presso famiglie in Romagna e nelle Marche per essere accuditi, grazie a quella rete di solidarietà nata all'indomani della Liberazione, in attesa del processo e dell'assoluzione dei genitori, che arriverà nel '52.
L'umanità della vicenda li ha conquistati portandoli per anni alla ricerca dei bimbi di allora, per capire cos'avesse significato per loro prendere un treno per la prima volta nella vita; fare un viaggio di un'intera giornata senza i propri punti di riferimento: i genitori; venire catapultati in un altro mondo con dialetti, usanze e sapori diversi. Capire le motivazioni di chi li ospitò, di chi se li trovò come fratelli e sorelle.
Nelle interviste raccolte i ricordi emergono senza filtri e restituiscono interamente quegli anni di difficoltà, altruismo e ottimismo.
È la commozione gioiosa che lega ogni pagina e immagine di Rinaldi e Piva, la commozione e semplicità di chi racconta rivivendo quei giorni, quel senso di accoglienza vera che faceva sentire i bambini parte delle famigle ospitanti.
«Lorica ci dice solo poche parole: “mio padre e mio fratello sono stati uccisi dai fascisti in un rastrellamento. Ho deciso di ospitare una bambina che aveva bisogno di aiuto per colmare questo vuoto immenso». Un momento malinconico narrato nel volume di Rinaldi, che spiega da dove venisse quella voglia di riscoprirsi uomini; ma ciò che emerge con maggior forza dalle interviste raccolte sono i momenti sereni, felici e comici dei legami che si crearono fra le persone, come nel racconto che fa ridendo Giovanni Berardi: « Franco (…).La notte non riusciva a prendere sonno: “Franco e dormi, va!”, dicevo. “Non ho sonno! Non ho sonno!, rispondeva lui. Il giorno dopo si svegliava e cominciava a guardare avanti e indietro da tutte le parti. (…) E allora, giorni dopo, quando incominciò a mangiare le tagliatelle, disse: “Noi c'avevano detto che qua c'erano i comunsiti che mangiavano i bambini”. “E' per quello, è per quello che avevi paura?” chiedevo. “Sì, stavo attento (...)”».
Oppure tornano le sensazioni delle scoperte fatte, come quella di Erminia Tancredi detta Mimì: «Mi sembrava di essere in una favola, perché dentro quel treno vedevo tutte queste luci che si rispecchiavano nel mare, non potevo riuscire a capire cos'era, perché neanche lo sapevo che c'era il mare. Ho svegliato anche mio fratello dicendogli: “Guarda cosa c'è lì, guarda cosa c'è!”, e poi, dopo, una di quelle signore che ci accompagnavano mi ha detto: “Quello è il mare”».
La storia dei bambini che partirono con i treni della felicità è straordinaria al punto da sembrare frutto di fantasia, che non stonerebbe narrata con un “c'era una volta...”, ma è assolutamente vera e fa parte della nostra cultura.
“Questo è un paese che ha bisogno di ricordarsi che ha fatto delle cose bellissime” (Luciana Viviani in “Pasta nera”).
Gemma Bigi