Una storia di resistenza dimenticata: i moti del "non si parte" in Sicilia
Se nell’immaginario collettivo la Seconda guerra mondiale e la Lotta di Liberazione in Italia tendono ad essere percepiti come un corpus omogeneo di causa-effetto, tale linearità si altera a contatto con le storie delle singole città e regioni.
È sicuramente così per la storia della Sicilia dal 1939 alla fine della guerra.
Per l’isola la Seconda guerra mondiale, soprattutto dal punto di vista militare, finì decisamente prima del 25 aprile 1945, e precisamente con lo sbarco degli Alleati il 9 luglio 1943 che la occuparono interamente entro il mese di agosto.
La Sicilia dunque non ha vissuto le stragi compiute dai soldati tedeschi, il collaborazionismo dei repubblichini, non ha dato vita ad un proprio movimento di resistenza. Visse, invece, un lungo e complesso dopoguerra, un periodo di relativa pace in un contesto nazionale di belligeranza.
Rievocando quegli anni, a livello sia istituzionale che storiografico, la tendenza è quella di concentrarsi sulla lotta partigiana o sulle azioni militari che dall’8 settembre ’43, e dopo due anni di resistenza armata e civile, hanno condotto alla sconfitta del nazifascismo.
Si sono così relegati a studi localistici eventi e fenomeni che si ebbero nel sud Italia. È ciò che è avvenuto ad esempio ai moti nel ragusano, all’insurrezione antimilitarista nota come la rivolta dei “Non si parte”.
Dal dicembre 1944 al gennaio 1945 in diverse zone della Sicilia si ebbero manifestazioni e sommosse per evitare l’arruolamento dei giovani nell’esercito regio, impegnato nella liberazione dell’Italia continentale. I “Non si parte”furono un fenomeno largamente incompreso, sia dai partiti del CLN che dal governo Bonomi succeduto a Badoglio, sia dagli Alleati. Il movimento venne infatti etichettato come filo fascista, reazionario e separatista. Di fatto fu espressione di uno spontaneo antimilitarismo da parte di una popolazione stanca, a cui era stato chiesto di sacrificare nuovamente i propri figli alla guerra e le proprie fatiche al Paese cambiando però scopo e nemico, ribaltando quello che le era stato detto fino a quel momento. La popolazione aveva totalmente perso la fiducia nei ranghi dirigenti, e l’obbligo di leva venne interpretato come un ulteriore sopruso che privava nuovamente le famiglie dei propri cari e la terra di braccia giovani e forti.
Già nel corso del ’43 e nei primi mesi del ’44 in Sicilia si erano avute manifestazioni contro il caro vita e la miseria, le quali avevano portato allo scontro della popolazione con reparti dell’esercito sabaudo. Decine furono in questo caso i morti, centinaia i feriti e gli arrestati.
Quando però nel dicembre 1944 vennero richiamati alle armi i giovani nati nei primi anni ’20, la situazione nell’isola precipitò e si moltiplicarono le manifestazioni, inizialmente pacifiche, contro la leva obbligatoria. Sui muri delle città comparvero le scritte: “Non presentatevi”, “Presentarsi significa servire i Savoia”, e ovunque si improvvisavano comizi antifascisti e, soprattutto, antimilitaristi. Ebbero così inizio i moti dei “Non si parte”.
La prima mobilitazione contro l’arruolamento obbligatorio si ebbe ad Enna l’11 dicembre 1944, presto seguita da quelle di Palermo, Messina e dei comuni delle province di Agrigento, Caltanisetta, Ragusa, Siracusa e Trapani. Il movimento però divenne sempre più violento in seguito alla rivolta di Catania. Il 14 dicembre per le vie della città i militari aprirono il fuoco contro un gruppo di studenti che stava manifestando, uccidendone uno. La reazione della popolazione fu immediata e la gente di Catania insorse dando fuoco al Municipio e assaltando gli edifici pubblici. L’esercito, per ripristinare l’ordine, mise sotto assedio la città.
Contemporaneamente a Catania insorsero le località della provincia di Ragusa da dove, nel gennaio 1945, la rivolta esplose con particolare violenza propagandosi in tutto il sud della Sicilia. Il 4 gennaio a Ragusa i militari operarono dei veri e propri rastrellamenti nei quartieri popolari per portare via i giovani in età di leva. Diversi manifestanti tentarono di impedirlo. Maria Occhipinti, una giovane protagonista della rivolta, si sdraiò incinta di cinque mesi davanti al camion carico di giovani per impedirne la coscrizione. I militari reagirono sparando sulla folla, uccidendo un giovane militante comunista e il sacrestano Giovanni Criscione. La rivolta invece di arrestarsi si inasprì, e divenne una vera e propria insurrezione. I “Non si parte” presidiarono interi quartieri e costruirono barricate per difenderli.
A Comiso, sempre nel ragusano, fra il 5 e il 6 gennaio i carabinieri vennero fatti prigionieri da circa cinquecento persone che costrinsero anche la polizia ad arrendersi. Proclamarono così la “Repubblica di Comiso” retta da un governo popolare, con tanto di comitato di salute pubblica, squadre per l'ordine interno e distribuzioni di viveri a prezzi di consorzio. L’11 gennaio però, sotto la minaccia di un bombardamento alleato della città, gli insorti trattarono la resa. Nonostante gli accordi, tutti i ribelli, circa 300, vennero arrestati e confinati a Ustica e Lipari, per essere amnistiati solo nel 1946 con la proclamazione della Repubblica italiana. Piccoli fuochi di rivolta continuarono comunque in tutta l’isola fino all’autunno del ’45, ma con la caduta della Repubblica di Comiso la rivolta dei “Non si parte” ebbe di fatto termine e ben presto si tentò di dimenticarla.
Non si può certo negare infatti che l’analisi dei moti siciliani non abbia messo in imbarazzo i partiti antifascisti durante e dopo la Liberazione, e che ancora oggi l’etichetta di rivolta filo fascista, ribadita per decenni dal PCI, pesi sugli eventi, pur essendo stata più volte smentita da studi e dalle testimonianze degli stessi protagonisti. Se inizialmente l’appello alla rivolta venne lanciato soprattutto da studenti - durante il fascismo esentati dal servizio militare fino ai 27 anni - successivamente i manifestanti affluirono da tutte le classi sociali, soprattutto da quelle popolari maggiormente colpite dalla situazione economica.
Certamente i fascisti ebbero ogni interesse a sostenere la rivolta, sia per indebolire l’autorità del nuovo governo italiano, sia per far credere che la Sicilia fosse a favore della Repubblica di Salò. Tuttavia non si può ignorare che uno degli slogan dei rivoltosi fosse: “Non si parte, ma indietro non si torna!”, stando ad indicare il ventennio mussoliniano. Anche gli indipendentisti cavalcarono l’onda della rivolta dato che il movimento ebbe in sé differenti anime, tali da non permettere un’etichetta politica univoca. Solo un elemento fu preponderante: l’antimilitarismo, accanto al carattere popolare, antimonarchico e repubblicano.
Di fatto la rivolta dei “Non si parte” fu un movimento – come quello analogo che interessò la Sardegna - largamente, e forse inevitabilmente, incompreso dall’Italia ancora sotto il giogo nazifascista. Se oggi è ancora possibile rimettere in discussione l’indignazione e l’interpretazione che dal punto di vista politico ed emotivo suscitò la rivolta nel resto d’Italia è grazie alla tenacia di alcuni protagonisti dell’epoca, come la già citata Maria Occhipinti e l’anarchico Franco Leggio, i quali incessantemente, e fino alla loro morte, hanno raccontato, scritto e tenuta viva la memoria di quei giorni, rovesciando luoghi comuni e analisi superficiali, consegnando un ritratto prezioso della vita in Sicilia nella prima metà del ‘900.
È la “microstoria” infatti che permette di cogliere l’essenza dei grandi eventi, mettendo in risalto sfumature fondamentali alla comprensione del tutto.
Gemma Bigi