Tagli alla cultura. E alla democrazia
I tagli alla cultura e la riforma dell’università, modello ministra Gelmini, una cosa hanno in comune: la loro capacità di sollevare protesta. Tutti hanno visto e sentito. Cortei, sit-in, occupazioni simboliche e purtroppo anche scontri con la polizia. Azioni che talvolta hanno superato i limiti, vedi tentativo di entrare al Senato. Azioni, tuttavia, mosse sempre dallo stesso combustibile: l’indignazione e talvolta anche la rabbia per una politica che in definitiva impoverisce il sistema formativo italiano. In buona sostanza una politica che impoverisce la cultura del nostro Paese.
È dovuto perfino intervenire il presidente Napolitano per richiamare il governo ad una maggiore attenzione. Molti lo hanno detto: senza investimenti sulla cultura che, detto più chiaramente, significa più soldi alla ricerca, all’istruzione, alle arti, si va indietro, non si va avanti.
Parole sante. Che, attenzione però, di solito – giustamente – evocano un futuro più o meno lontano, prevalentemente in chiave economica. Facciamo degli esempi. Per un paese straordinariamente ricco come l’Italia di beni monumentali non preservare la sua memoria storica significa sul lungo periodo rinunciare allo sviluppo del turismo. Ancora. Non investire nella ricerca significa, invece, soccombere alla concorrenza degli altri paesi tecnologicamente avanzati che, più intelligentemente di noi, per uscire dalla crisi, gli investimenti li hanno aumentati. Con tutto ciò che ne consegue sul piano dell’occupazione e più in generale della ricchezza del Paese.
S’intende, tutto vero e da sottoscrivere in pieno.
Ma c’è un altro aspetto del problema che per lo più è sfuggito: che impoverendo la cultura s’impoverisce anche la democrazia. Che non è una dimensione astratta, mitica. Tutt’altro, è una realtà concreta che si costruisce giorno dopo giorno nel vivo delle relazioni sociali. E non c’è dubbio che la democrazia vive, anzi, si nutre, di cultura che vuol dire memoria storica ma anche maggiore coscienza critica, che vuol dire capacità di leggere la realtà senza occhiali distorcenti ma anche la possibilità di misurarsi con i piccoli grandi problemi della nostra vita con un’”attrezzatura” migliore. Che in sintesi, insomma, significa scommettere su italiani più preparati, più capaci, anche di costruire una democrazia migliore. È forse questo che non si vuole?
(Mi. Urb.)