Dal primo al secondo Risorgimento
1. Dal primo al secondo Risorgimento ovvero il seguente problema, storiografico e politico insieme, come si pose subito dopo il ‘45: la Resistenza era stata davvero il compimento di una rivoluzione risorgimentale incompleta, realizzata solo istituzionalmente con un’unità politica e amministrativa accentrata in Roma capitale, ma non strutturalmente, né come integrazione sociale né come equilibrio dei tempi e modi di sviluppo? Interrogativo, questo, che a sua volta ne comportava altri due, essi pure di natura sia storiografica che politica: era stato davvero il Risorgimento quella rivoluzione mancata, nel senso di mancata riforma agraria, di estraneità delle masse popolari e in particolare delle contadine, di irrisolta, anzi tendenzialmente accentuata divaricazione fra Nord e Sud? E la Resistenza non era stata anch’essa, piuttosto che compimento rivoluzionario, una rivoluzione alla fine abortita o, come si preferì dire, tradita? Tradita nelle sue istanze di defascistizzazione delle strutture statali e dell’apparato burocratico, di radicalità laica, di rinnovamento dei rapporti sociali e democratici come lo si era embrionalmente vissuto nei CLN settentrionali. Erano davvero rimaste solo le ceneri di Gramsci, come a metà anni ’50 provocatoriamente sintetizzò in versi un irregolare di genio?
Certo c’era stato anche, nell’accezione di ‘secondo Risorgimento’ spontaneamente attribuita alla guerra di resistenza dalle denominazioni stesse assunte da molte bande partigiane, il richiamo alla tradizionale lotta contro l’invasore tedesco; e c’era stato implicito quel tanto di ‘guerra civile’ che accomunava la lotta dei patrioti di oggi contro i fascisti asserviti al Terzo Reich alla lotta dei patrioti giacobini contro i sanfedisti, poi dei patrioti mazziniani e garibaldini contro borbonici, austriacanti, filopapalini. Patriota era nato di sinistra alla fine del Settecento, lo fu con Garibaldi nel Risorgimento, lo rimase nelle stesse origini dell’irredentismo scaturito dal caso Oberdan sullo scorcio dell’Ottocento, di destra non era stato mai: averlo abbandonato al reazionario uso nazionalista per un lungo tratto primonovecentesco, quando non venne compreso quale contributo decisivo i movimenti di liberazione nazionale avevano e avrebbero dato al progresso internazionalista, fu errore micidiale. Gran merito della Resistenza aver rifatto nostra, pratica e concetto, la tradizione patriottica.
Comunque, quel che prevalse nell’interpretazione storica della Resistenza come ‘secondo Risorgimento’ fu la sua istanza di un profondo rinnovamento sociale e politico, della fondazione di una patria intrinsecamente rinnovata nei rapporti sociali e nelle istituzioni. E dunque, per riprendere gli interrogativi iniziali, istanze realizzate oppure rimaste inespresse? In altri termini, se il Risorgimento – come da diversi punti di vista avevano denunciato il comunista Gramsci, i liberali Gobetti e Dorso, lo stesso liberal-socialista Rosselli degli studi su Pisacane Mazzini Bakunin – era stato intimamente antigiacobino e a salda direzione moderata, non aveva avuto anche la Resistenza (dalla svolta cosiddetta ‘badogliana’ di Togliatti ai primi governi di coalizione e poi alla rottura democristiana dell’unità CLN) un esito decisamente antigiacobino e moderato rispetto alle aspettative dei settori partigiani più avanzati? Con un ulteriore interrogativo sotteso a tutti questi, inseparabile da ogni problematica resistenziale esistendo la Resistenza in quanto movimento di opposizione al Fascismo: cosa cioè avesse significato il Fascismo al potere nel segmento storico fra quel primo e quel secondo Risorgimento, se una malattia irrazionalmente sopravvenuta in un corpo sano come voleva la storiografia liberale, Croce in testa, ovvero l’inevitabile destino delle fallimentari classi dirigenti prefasciste cosiddette liberali, ovvero ancora l’espressione di un sovversivismo intrinseco alle classi dirigenti italiane, come l’aveva definito Gramsci e come a noi qui e oggi pare pericolosamente confermarsi. Oltretutto il fascismo, per suo conto, aveva politicamente e storiograficamente cercato di accreditarsi lui, nella sua componente nazionalista da Gentile a Volpe a Rocco, come il vero realizzatore rivoluzionario dei destini risorgimentali, e questo – fra apologia crociana del Risorgimento liberale, sua opposta revisione critica da parte dei Gramsci e dei Gobetti, nuovo protagonismo nazionale dei cattolici e della Chiesa dopo Partito Popolare e Patti Lateranensi – complicava ulteriormente lo scioglimento di tutti questi nodi.
La discussione fu asperrima subito dal 1945 almeno fino al 1960, e condotta senza esclusione di colpi, perché c’era la coscienza che con la risposta a quelle domande si giocava una partita decisiva nella battaglia per l’egemonia culturale: basti pensare che nel 1955 il comitato dei ministri incaricati di organizzare le celebrazioni del decennale patrocinò un corposo volume ufficiale intitolato appunto Il secondo Risorgimento. Nel decennale della Resistenza e del ritorno alla democrazia, escludendone tutti i protagonisti o gli studiosi non aderenti ai partiti di governo, in particolare socialisti e comunisti in quanto estranei alle ideologie della democrazia. E pochi anni dopo, nel 1959, un fortunato saggio di Claudio Pavone su antifascismo e fascismo di fronte alla tradizione del Risorgimento suscitò discussioni furibonde incentrate su un punto che allora pareva cruciale per il riconoscimento o meno del Partito Comunista come partito della tradizione nazionale: era stato il suo risorgimentalismo durante la Resistenza, nei termini precipui del garibaldinismo, espressione di una cultura e visione storica autentiche, oppure era stato di mera natura pratica, strumentalmente rispondente alle nuove esigenze unitarie della politica dei fronti popolari?
Pavone giudicava dal punto di vista dell’azionista che era stato, il suo risorgimentalismo resistenziale era nel solco del Risorgimento di Giustizia e Libertà (Gobetti e Carlo Rosselli), dunque critico dei comunisti (in particolare del Togliatti che nelle polemiche anni Venti con Rosselli e «Quarto Stato» aveva liquidato il cosiddetto Risorgimento, con il che Pavone isolava il risorgimentalismo di Gramsci come fatto intellettuale a sé, non espressivo di un’intrinseca cultura del Partito); ma critico anche dei liberali crociani che, tipico Omodeo, avevano duramente polemizzato contro la revisione gobettiana del Risorgimento. Così accadde che Pavone venisse contestato sia dai comunisti come Battaglia e Spriano, sia dai liberali crociani come De Caprariis. Non erano, lo ribadisco, puntigli accademici. Per capire la rilevanza eminentemente politica di contrasti che oggi possono sembrare di astratta schematizzazione quando non di pura ritorsione ideologica o nel migliore dei casi di accanimento filologico, ricordiamo come allora negli anni Cinquanta, anche facendo perno sull’impatto formidabile dei Quaderni di un Gramsci sostanzialmente sostituito a Croce (sostituito, più che contrapposto), il PCI puntasse ad accreditare se stesso e la classe operaia quali eredi della grande tradizione liberale del Risorgimento, dagli Spaventa a De Sanctis fino all’approdo di quella tradizione – con Antonio Labriola – nel marxismo e nel socialismo. Su questa linea, è noto, Togliatti era giunto ad esprimere un giudizio storicamente positivo sulla stessa politica di apertura ai socialisti praticata nel primo Novecento da quel Giolitti che era sempre stato la tradizionale bestia nera della cultura salveminiana, gobettiana e ordinovista; e ciò Togliatti aveva fatto non solo in polemica politica contro l’ostracismo democristiano alle sinistre, ma anche con l’obiettivo storiografico di sottrarre Giolitti all’apologia e in sostanza appropriazione neoliberale operatane da Croce.
Le polemiche su Resistenza e Risorgimento si intrecciavano, insomma, con le concomitanti querelles sull’interpretazione gramsciana del medesimo Risorgimento (ricordo il memorabile scontro fra lo storico liberale Rosario Romeo e gli storici marxisti da Sereni a Zangheri a Cafagna ) e, a questa strettamente connessa, sulla questione del Mezzogiorno e sulla prospettiva dell’alleanza nazionale fra operai del Nord e contadini del Sud. Perché, era stata davvero la Resistenza il compimento del Risorgimento nazionale? E se sì, erano state davvero le avanguardie della classe operaia forza propulsiva e trainante della Resistenza come la borghesia più avanzata lo era stata del Risorgimento? Era questa una condizione essenziale per interpretare storicamente il fallimento e la caduta del fascismo come sconfitta storica delle tradizionali classi dirigenti borghesi e come fine dell’egemonia borghese, e per accreditare di conseguenza la classe operaia come nuova classe trainante ed egemone, come la nuova classe nazionalmente dirigente. Tanto che Togliatti – più culturalmente sensibile al momento risorgimentale – ispirava una storiografia molto attenta alle analogie e alla continuità Risorgimento-Resistenza; Longo invece – più militantemente radicato nel momento resistenziale e autore dell’ancora oggi essenziale Un popolo alla macchia – preferì richiamare gli storici a una decisa distinzione fra i due Risorgimenti proprio per riaffermare il primo a direzione borghese, il secondo a direzione popolare, operaia e contadina (la Resistenza, anzi, come innovativa esperienza storica di partecipazione contadina a un moto di liberazione nazionale, con il rovesciamento almeno nel Nord di quella tradizione di sanfedismo antigiacobino, antirisorgimentale, in sostanza antinazionale da cui le masse agrarie non si erano in precedenza mai emancipate).
Temi brucianti, e non è un caso che anche nel 1960, anno preparatorio del centenario dell’Unità ma anche anno critico del governo Tambroni, si dovettero registrare non poche resistenze alla celebrazione ovvero inclinazioni ad una celebrazione debole e distorta, sia pur – va detto − imparagonabili per gravità di motivi e per ostentata impudenza a quelle odierne in vista del 150°: allora, piuttosto che la negazione e il rifiuto, c’era il tentativo – chiamiamolo così – di delaicizzazione e clericalizzazione del Risorgimento per sottrarlo all’egemonia interpretativa e marxista e liberale, così come nel 1955 – decennale della Liberazione – c’era stato un notevole e non banale sforzo (ricordo politicamente Malvestiti sul «Popolo» e storiograficamente Passerin d’Entreves su «Civitas» di Taviani) di cattolicizzare la Resistenza, enfatizzandone la dimensione religiosa. Ricordo che a denunciare il tentativo del Governo di mettere la sordina sui grandi eventi del triennio 1859-’61 intervenne, con una lucida polemica dal titolo inequivocabile Antirisorgimento, Alessandro Natta (un dirigente di partito a sua volta acuto storico del pensiero risorgimentale, lui studioso del Cuoco e del Colletta, il cui nome mi piace ricordare anche per rimpiangere insieme a voi quella specie di intellettuali-politici e di politici-intellettuali, comunisti, socialisti, azionisti, cattolici, liberali di cui si erano innervate la resistenza al fascismo e poi la rinascita nazionale nella Repubblica e nella Costituzione – una specie della quale, non ultimo segno del nostro declino democratico e culturale, pare smarrito lo stampo).
D’altronde, perché quello del Risorgimento primo e secondo non potesse non diventare, anzi restare terreno di confronto ideologico e di implicazioni politiche al calor bianco lo aveva spiegato bene un grande intellettuale e martire antifascista, Leone Ginzburg, in certe sue pagine del 1943 su La tradizione del Risorgimento rimaste inedite ed esemplarmente stampate, quasi un messaggio, subito nell’aprile del 1945 da un’indimenticabile rivista napoletana, «Aretusa»: «L’Italia in cui viviamo non è pensabile – ammoniva Ginzburg − senza il Risorgimento. Sorto da un impellente bisogno di adeguare il nostro paese … alla moderna cultura e vita politica europea, mentre gli Stati italiani erano tanti cadaveri dissepolti che al contatto dell’aria sarebbero andati in polvere … Per gli italiani, l’atteggiamento da assumere nei riguardi del Risorgimento implica ancora, e forse continuerà ad implicare per parecchio tempo, una scelta inequivocabile che precede ogni valutazione storiografica … Risorgimento non è dunque, per gli italiani di oggi, la semplice designazione di un periodo storico, un recipiente in cui si possa versare qualunque liquido: è, invece, una tradizione tuttora viva e gelosamente custodita, a cui ci si richiama di continuo per ricavarne norme di giudizio e incentivi all’azione».
Su uno dei primi numeri della medesima rivista «Aretusa» un grande liberale oggi rimosso come Gobetti dai sedicenti liberali da cui siamo infestati (tutti inverecondamente liberali e riformisti i tristi attori di questa fase illiberale e restauratrice), dico il liberale Guido Dorso, in certe sue straordinarie pagine del 1944 sulla Teoria politica dei “partigiani” dalle quali farei aprire un’auspicabile antologia del pensiero resistenziale, aveva a sua volta avvertito: «Un nuovo incontro di Teano non appare probabile, poiché questo tipo di eventi storici presuppone l’assenza delle masse e la tendenza delle élites rivoluzionarie a transigere. Oggi, invece, il movimento partigiano si sviluppa attraverso il popolo, e ciò dovrebbe essere sufficiente a preservarlo da adulterazioni. Tutto il processo storico, iniziatosi col Risorgimento e limitatosi finora all’indipendenza nazionale, pare voglia concludersi con un nuovo Risorgimento, che artificiosamente si vorrebbe limitare al riacquisto dell’indipendenza, ma che in effetti … deve espandersi all’affermazione dell’autogoverno come unico mezzo per l’effettivo acquisto e garanzia della libertà». Mettiamo insieme le parole del torinese Ginzburg e del meridionale Dorso, il Risorgimento di quello con il nuovo Risorgimento di questo, e sarà chiaro quale destino di scontro politico dovesse attendere – repubblica, costituzione, strategie economico-sociali – il tema storiografico voluto qui oggi in discussione dall’ANPI.
2. Grande sarebbe dunque la tentazione di sostare analiticamente sul dibattito intorno alla Resistenza come secondo Risorgimento dipanatosi in quella fase storica così decisiva e drammatica per tutte le forze politiche che avevano costituito il CLN: prima e dopo lo snodo del ’48, nella tempesta del ’56, alle soglie contrastatissime del centro-sinistra, quando dall’opposizione di popolo al torbido tentativo Tambroni di riportare i neofascisti nell’area di governo e di bloccare la nascita del centro-sinistra venne per un momento rilanciato lo spirito militante della Resistenza (che poi del centro-sinistra non siano state capite e sviluppate tutte le potenzialità sarebbe altro discorso, non estraneo alla comprensione della nostra deriva nei decenni successivi). Una tentazione storiografica tanto più forte oggi, ripeto, che sulla nostra storia, sulla storia delle nostre idee, si preferisce stendere un’opportunistica cortina di occultamenti, rimozioni, edulcorazioni, distorsioni, negazioni, palinodie, quando al contrario un intelligente esercizio della ragione storica compiuto a schiena dritta sarebbe vitale per uscire dal gorgo di subalternità in cui ci dibattiamo anche nel campo storiografico, Risorgimento e Resistenza in primis: deprecato o affidato a letture deboli e fin caricaturali il Risorgimento, ridotta troppo spesso la Resistenza ad un’ormai univoca misura di guerra civile, oltretutto sempre più strumentalmente fraintesa al fine surrettizio di attribuire pari dignità storica alla pars fascista di Salò (come in modo analogo, nel Risorgimento, alla pars sanfedista delle insorgenze), ovvero – in qualche caso particolarmente repulsivo − di ridurre la Resistenza ad equivalente se non peggiore storica indegnità. Neppure nel buio della guerra fredda si era osato tanto. Una brutta china lungo la quale, comunque, cominciammo a scivolare vent’anni fa, nel disastroso bicentenario dell’Ottantanove: perché alla fine, lasciatemelo confessare, di questo sono sempre più convinto, ‘dimmi cosa pensi dell’Ottantanove e ti dirò chi sei’.
Tentazione storiografica grande, anzi di storia della storiografia, ma altro preme qui e oggi, quando – con martellante insistenza – vengono messi in discussione i due cardini dell’assetto statuale uscito dalla Resistenza, l’unità repubblicana e la carta costituzionale. Quando, cioè, all’ordine del giorno non è il movimento progressivo di rinascenza insito nel concetto di risorgimento, bensì un movimento regressivo di corruzione e restaurazione: ricordo che risorgimento, prima di venir a designare il processo di unificazione nazionale, periodizzava quello che ora si nomina rinascimento, ‘rinascimento’ dalle tenebre medievali affondante le sue primi radici nazionali nei liberi comuni di popolo; poi ‘risorgimento’ dal sistema di antico regime e dalla sua reviviscenza nella restaurazione; poi ancora ‘liberazione’ dal fascismo. Rinascimento, Risorgimento, Resistenza. Un filo rosso di sviluppo storico sulla linea della rivoluzione razionalista rinascimentale e poi illuministica (il calle dal risorto pensier segnato innanti come lo sintetizzò Leopardi), dipanatosi nella modernità lungo le direttrici rivoluzionarie e fra loro variamente conflittuali del liberalismo borghese, del socialismo proletario, dei filoni democratici e laici cresciuti dentro il cattolicesimo. Non si intende, nella sua forza propulsiva ma anche nelle sue contraddizioni, il complesso della resistenza al fascismo e poi l’esito repubblicano e costituzionale senza tener conto di questa spinta storica radicata nelle forze sociali e nel loro patrimonio culturale, la spinta storica che reagì ai movimenti regressivi saldatisi nella monarchia fascista.
Non è un caso che i critici più radicali e conseguenti dello Stato repubblicano e della Costituzione antifascista, come i cattolici integralisti di Baget Bozzo dagli anni Cinquanta e Sessanta di «Terza generazione» e di «Ordine civile» fino al supporto ideologico per Forza Italia, abbiano contestato in radice la legittimità medesima di quello Stato repubblicano e di quella Costituzione antifascista, legittimità declassata sottilmente a «quasi legittimità» proprio per i cardini rivoluzionari e dell’uno e dell’altra; appunto – a ritroso − la Resistenza, il Risorgimento, e a risalire l’Ottantanove e il Rinascimento stesso antimedievale. Rileggiamo, ci serve a capire come vengano da lontano, a riflettere dove siano andati via via incubando e serpeggiando e a cosa si ispirino certo attuale sovversivismo anticostituzionale (la Costituzione catto-comunista quando non bolscevica tout court denigrata giornalmente dal Presidente del Consiglio) e insieme certo neoclericalismo sanfedista anche di marca laica; rileggiamo quel che in tema di Stato e Rivoluzione scriveva il futuro consigliere dell’on. Berlusconi nel 1960, proprio – guarda caso − in piena crisi ‘tambroniana’: lo Stato liberale uscito dal Risorgimento essere «esempio classico del regime “quasi legittimo”, ossia del regime che copre sotto una legittimità apparente una illegittimità sostanziale, del regime che nasconde la rivoluzione nelle pieghe dello Stato»; essere analogamente illegittimo – dopo la Resistenza/secondo Risorgimento, lo Stato repubblicano con la Costituzione del 1948, proprio in quanto «costituzione antifascista: e anche in essa, l’antica “quasi legittimità”, il connubbio tra Stato e rivoluzione»; in mezzo invece la parentesi del regime fascista e, suggeriva puntualmente Baget Bozzo, «il fantasma di un vero Stato non venne mai come allora evocato: e i cuori semplici del popolo italiano ne furono commossi e sedotti». Attacco all’Italia repubblicana e alla sua Carta? Esso non sarebbe dunque una sovversione, ma anzi il ristabilimento di una piena e superiore legalità: siamo alle radici, come si vede, del populismo postfascista attuale e delle sue telecomandate commozioni e seduzioni. Ma, quando andremo a ricostruire le matrici culturali dell’attuale pensiero reazionario − revisionismo storiografico, individualismo antiegualitario e antistatuale, subalternità del politico all’economico − le sorprese e gli incroci saranno molti e talvolta dolorosi, per esempio anche a carico del Sessantotto e dei suoi miti neoromantici e neovitalistici, di una tal sua idea minoritaria e ribellistica della Resistenza, soprattutto del suo disprezzo per quel nazional-popolare che, dal primo al secondo Risorgimento, in politica e in cultura – attraverso il complesso costituirsi dei partiti nuovi e via via rinnovati e articolati nel corso del Novecento e della stessa esperienza resistenziale, il comunista, il popolare, il socialista, l’azionista … − aveva cominciato a formare un’identità popolare, appunto, della nazione e nazionale del popolo.
Comprendere le basi sociali e le componenti culturali di questa nuova destra; ma comprendere anche le ragioni del declino della sinistra, a sua volta da ricercare – oltre che nelle profonde trasformazioni dei suoi tradizionali ceti di riferimento (e nel fallimento, diciamolo, della classe operaia come nuova classe dirigente, cioè del presupposto essenziale della politica di via italiana al socialismo) – in un molecolare assorbimento nella sua cultura di essenziali ragioni della destra: è una riflessione storica e politica insieme, da svolgere intorno al recente passato con gli occhi rivolti al prossimo futuro, cui io credo l’ANPI dovrebbe dare molto impulso attraverso l’offerta di se stessa come luogo di incontro e di iniziativa e la sistematica promozione di discussioni e di ricerche su temi, come usa ora dire, particolarmente ‘sensibili’. Ricordiamo come, durante e dopo la Resistenza, le grandi correnti ideali di pensiero e i loro partiti si impegnassero – molti politici in prima fila − nella ricerca storica e documentaria non solo su primo e secondo Risorgimento ma anche sulle origini del fascismo e sulle origini e vicende proprie e dei propri gruppi dirigenti. Del resto, la differenza fra piccola e grande politica l’aveva spiegata in una pagina famosa dei Quaderni Antonio Gramsci, appunto riflettendo – radicalmente e però tutto fuor che settariamente − con lo sguardo al futuro sulle cause storiche della propria sconfitta e della vittoria fascista. Altrimenti il destino di subalternità è sicuro: già vediamo come accada che ai rumori della destra, alla predicazione del mercato quale suprema deità regolatrice, all’invocazione di un esecutivo rafforzato rispetto al Parlamento anzi svincolato affatto dalle sue pastoie, alla quotidiana esecrazione della Carta come infernale camicia di forza burocratico-statalista, al feroce perseguimento di un federalismo dai palesi intenti separatisti, le nostre proteste suonino – come dire? – accorata raccomandazione di minor invasività e di più sobrio stile piuttosto che strategica opposizione di una prospettiva riformatrice davvero culturalmente altra in quanto pensata e perseguita in nome di soggetti, di bisogni, di obiettivi a loro volta altri socialmente e politicamente. Lasciamo pur stare le sceneggiate televisive, ma i convegni ‘culturali’ bi- quando non tri-partisan oggi di moda fra i politici e anche fra gli intellettuali vanno in direzione opposta, servono solo a tattiche di schieramento trasformistico o a semplici ammiccamenti nel chiuso di un ceto politico autoreferenziale: il fatto è che, quanto a pensiero, quello multipartisan non potrà mai avere altri destini che la confusione o la connivenza.
3. Cominciamo allora – per alcuni pensieri conclusivi di questa nostra odierna riflessione monopartigiana − col dire prima di tutto, e seccamente anche in risposta agli antichi interrogativi di metodo richiamati in apertura, che il Risorgimento non fu rivoluzione mancata, fu rivoluzione vera, certo non sociale e solo istituzionale, ma autentica: come chiamare altrimenti l’unificazione in un nuovo Stato indipendente di un coacervo di Stati (non regioni) variamente e secolarmente ‘dipendenti’? Quando Croce affermò che storia d’Italia in quanto tale si poteva fare solo ora, come storia dell’Italia unita, forse eccedette in un poco di paradosso, però aveva nella sostanza ragione e voleva dire a modo suo proprio questo, essersi trattato di una rivoluzione nazionale in un contesto europeo che ne veniva – come dall’analoga tedesca – profondamente mutato (e infatti le sue storie d’Italia e d’Europa furono e vanno lette complementari). Rivoluzione unitaria, dunque, il primo Risorgimento.
Dico in secondo luogo, altrettanto seccamente, che la Resistenza non fu tradita, diede a sua volta – oltre al contributo alla liberazione da nazisti e fascisti – esiti rivoluzionari come la Repubblica democratica a suffragio autenticamente universale e la Costituzione fondata sul lavoro. Certo la rivoluzione sociale, o diciamo pure socialista, nei voti di una parte della Resistenza non ci fu né ci poteva essere; altrettanto certamente fra laici e cattolici furono indispensabili compromessi insidiosi, proverbiale quello sull’articolo 7, che solo in parte sanavano − e in realtà sancivano cercando di regolarla − una sofferenza intrinseca ab origine al nostro Stato, dal tempo della questione romana, ma alla fine Repubblica e Costituzione (fondata peraltro sul lavoro, non lo si dimentichi, come non lo dimenticano gli attuali picconatori della sua stessa parte prima) furono acquisizioni assolutamente rivoluzionarie, rispondenti fra l’altro alle aspirazioni a suo tempo sconfitte delle ali più avanzate del movimento risorgimentale, diciamo per intenderci la mazziniana e la garibaldina. Esiti rivoluzionari, dunque, anche quelli del secondo Risorgimento.
Dal primo al secondo Risorgimento, unità nazionale e Costituzione repubblicana fondata sul lavoro: proprio le ossessioni polemiche dell’integralismo cattolico alla Baget Bozzo e del complottismo laico siglato P2, ed era nella logica delle cose – diciamo nella convergenza degli obiettivi – che queste due linee di attacco alla Costituzione fossero destinate ad incontrarsi ed allearsi per un lungo percorso comune iniziato già negli anni Ottanta. Pure nell’ordine delle cose che il revisionismo della Costituzione (del quale il revisionismo storiografico di Risorgimento e Resistenza costituisce un’essenziale espressione ideologica) potesse incrociare, traendone e a vicenda conferendole ulteriore linfa, la patologia dello Stato unitario da sempre più acuta, la piena integrazione cioè fra Nord e Sud. Postasi subito come ‘questione napoletana’ per Cavour, indusse alla scelta del centralismo di Ricasoli e all’abbandono del federalismo ‘regionalista’ di Minghetti (quello più radicale, repubblicano, di Cattaneo con la sua Italia delle cento città non fu mai realmente in gioco). Fu poi la ‘questione meridionale’, in realtà – sempre – la primaria questione nazionale, alla cui storia secolare qui non è possibile neppure far cenno. Se non per dire che nel nuovo contesto europeo, monetariamente integrato ma politicamente privo di costituzione e di effettivi organismi di governo, viene dovunque acutizzata una sorta di polarità fra macro-area continentale e micro-aree regionali a danno e pericolo dei depotenziati Stati nazionali, soprattutto di quelli a più fragile equilibrio dei sistemi produttivi, delle tradizioni culturali, linguistiche, in qualche caso religiose; in Italia, la ‘questione settentrionale’ posta soprattutto dalla Lega nei termini brutali di un federalismo ad alto tasso separatista: separatista e dal Mezzogiorno e da Roma capitale eminentemente accentratrice. Non sottovalutiamo Pontida, gli insulti alla bandiera, all’inno, al Risorgimento: i minacciosi protagonisti di questa via celtico-padana alla secessione sono ministri dello Stato. Il capo del governo contro la Costituzione, il ministro dell’interno contro l’Unità.
Vale la pena di ricordare, a proposito di Unità e della questione del rapporto Nord-Sud, come essa fosse ben presente, nei termini specifici della Resistenza e delle divaricazioni che nel suo diverso svolgimento si accentuavano fra Settentrione e Meridione, dentro la stessa direzione del CLNAI. Rodolfo Morandi, un altro intellettuale-politico di quella specie estinta, si preoccupava, in un intervento del 1945 dal significativo titolo Unire per costruire, della divisione latente che minacciava di acuirsi: «Ci sono degli sfasamenti nell’ordine politico che conseguono ad una esperienza particolare del Nord, e noi ci disponiamo a risolverli con una unificazione … di metodi e di sistemi, nel consolidamento della neonata democrazia italiana, da qui alla Costituente. Ma in più ci sono dissonanze nella vita nazionale e lacerazioni che urge eliminare e sanare, e il farlo dipende soltanto dalla nostra volontà di uomini del Nord e del Sud, che si sentono in verità soltanto italiani». Perché poi Morandi sapeva bene (e il futuro avrebbe confermato tanti suoi timori) come l’Italia non si potesse governare che da Roma, ma che in quella grande palude della burocrazia ministeriale le nuove energie rischiassero di perdersi e sia per il Nord che per il Sud fosse vitale che lo Stato italiano non si rifacesse sulla Babele fascista. E sapeva altrettanto bene che la saldatura del Sud col Nord era resa difficile anche dal fatto che del Nord c’era da valorizzare una esperienza più avanzata e più matura a pro di tutta la Nazione, come diceva nel giugno dello stesso 1945, rivolgendosi ai CLN regionali dell’Alta Italia. Una questione, una latente insoddisfazione settentrionale nei confronti della centralità romana e del ritardo meridionale, presto confermata dai rispettivi esiti del referendum istituzionale, acuta in questo 1945 del CNLAI in polemica con Roma nel momento stesso che dall’Italia ‘divisa in due’ bisogna tornare all’Italia una, ma già insorta nel Cavour e nei settentrionali e toscani subito angosciati dalla ‘questione napoletana’, borbonica. Questioni antiche di patologia statuale, della cui storia è politicamente indispensabile aver precisa coscienza: e sul problema tipicamente postrisorgimentale del rapporto Nord-Sud come si pose nella cultura e nella politica della Resistenza, in particolare nel Nord, e come non è stato risolto nei decenni successivi sarà necessario che noi torniamo. A partire forse da un dato bibliografico che fu come la sanzione fissata dalla storiografia che quel problema era ben chiaro, ma appunto irrisolto e come acquisito da una divaricante lettura della storia nazionale diventata acquisito senso comune: quando attorno al 1960, come a consuntivo delle discussioni postresistenziali, da Cafagna e da Villari furono messe assieme le due grandi antologie rispettivamente dedicate al Nord e al Sud nella storia d’Italia, la prima venne sottotitolata antologia politica dell’Italia industriale, la seconda antologia della questione meridionale. Il Nord nella storia nazionale come luogo dello sviluppo produttivo, il Sud come questione, come luogo cioè della questione del sottosviluppo.
Duplice oggi, comunque, il progetto revisionista della Carta da parte della Destra: per un verso più libertà di mercato e più potere dell’esecutivo a detrimento della centralità del lavoro e del Parlamento; per altro verso introduzione di un sistema federalistico entro uno Stato senza più strutturazione sovraordinamentale, dunque – nella nostra realtà economica, sociale, amministrativa – ad alto rischio di un esito disgregativo fra le regioni, non già di piena attuazione dell’autonomia prevista dalla Carta stessa. Che poi si tratti di due disegni eversivi della Costituzione non necessariamente fraterni fra loro, anzi passibili di qualche reciproca conflittualità, è altro discorso: se mai preoccupa ancor più che si siano invece potuti saldare in un’alleanza micidiale e in un unico disegno fra iperliberismo economico, egoismo sociale, autoritarismo politico. In un tale contesto un federalista democratico (vogliamo dire di cultura catteneana e perfino minghettiana?) di fronte alla deriva ‘padana’ non si astiene, si oppone; così come un sincero liberista vota contro, senza apertura alcuna, la strutturale deregolamentazione implicita nella sovversione dell’articolo 41 magari in combinato disposto con quella dell’articolo 1.
E attenzione: prima ancora dell’eversione formale della Carta, abbiamo già in atto una sua strisciante eversione materiale. Il depotenziamento del sistema scolastico e universitario pubblico e la sua regionalizzazione, lo svuotamento dei pubblici istituti di ricerca e di cultura, la sottomissione del dettato costituzionale e legislativo sulla tutela del lavoro alla contrattazione locale, le cosiddette semplificazioni e sburocratizzazioni di iniziativa privata, l’ossessionante tentativo giornaliero di imporre lacci e vincoli alla magistratura, la costrizione stessa del Presidente della Repubblica ad un continuo interventismo in difesa della Costituzione quasi per supplenza di un Parlamento infiacchito e quasi inebetito dalla natura medesima del sistema elettorale attraverso cui si forma, tutto questo converge in modo univoco a configurare un Paese squilibrato, diviso, privatizzato, presidenzializzato (ieri Scalfaro, Ciampi, oggi Napolitano, tutte coscienze del secondo Risorgimento, ma domani?). Accettare un contratto con certe clausole a Pomigliano in Campania ma non mai a Mirafiori in Piemonte? Già nella logica del disgregante federalismo leghista. Tagliare indiscriminatamente le risorse di scuole e atenei? Stessa strada di ulteriore divaricazione fra le regioni luogo dello sviluppo e le regioni luogo del sottosviluppo.
Così procedendo, rischiamo di avere, uno strappo qua e altre ricuciture e rattoppi là, una Carta e un Paese devastati e sformati alla stregua d’un Frankenstein costituzionale; né possiamo illuderci che, alla fine, di un’Unità e di una Costituzione quantunque così deturpate, anzi della storia nazionale dal primo al secondo Risorgimento, resti tuttavia l’anima, nella presunzione che simili chirurghi all’anima non possano giungere e che poi anche il viso, a maggioranza parlamentare riconquistata, possa venir restaurato con qualche tocco di chirurgia plastica: no, non è così. Questi non sono processi transeunti o semplici parentesi, la lunga storia della crisi dello Stato liberale e poi lo sbocco nel fascismo insegnino: Frankenstein del resto un’anima ce l’ha, ma brutta, perversa, con una brutale intelligenza capace di distorcere a propria immagine e servizio la storia stessa e i principî fondanti. Ricordate il Machiavelli di Mussolini? Non illudiamoci: è ben vero anche in questo caso che la storia non si ripete mai uguale, tuttavia essa è magistra proprio perché le sue sequenze sono regolate da una logica implacabile. È sotto questa luce che dobbiamo guardare al 150° anniversario dell’Unità: dunque con un’intelligenza affatto aliena da spiriti celebrativi che non hanno alcune ragion d’essere, ma con la consapevolezza che siamo a uno snodo storico di crisi della Repubblica postresistenziale analogo per intensità – e sia pur diversissimo per culture e problematiche e contesti e soggetti sia sociali che politici – a quello vissuto nei primi anni Venti dallo Stato postrisorgimentale.
4. Noi oggi, qui, parliamo di storia, di politica toccando solo nel senso che l’intelligenza storica deve tenere i piedi saldi nel presente e lo sguardo volto al futuro. Parliamo di storia, qui all’ANPI voi vecchi militanti partigiani e tanti come me ormai a nostra volta vecchi militanti democratici, non per autogratificante nostalgia bensì per partecipare all’oggi nell’unico modo che ci compete: parlare ai più giovani, collaborare alla ricostruzione di un dialogo fra le generazioni, la cui perdita costituisce una delle lacerazioni più pericolose e intimamente regressive del tessuto democratico. Ma parlare ai giovani di che? Forse della nostra recente storia breve, delle complicate, acrimoniose, inestricabili se non per noi stessi e solo per noi stessi pronunciabili vicende di appartenenze personali e correntizie in un quadro di modernariato politico che ha passato gli ultimi venti o trent’anni a sgranarsi, a stingersi, spesso a far macchia in puntigliose sopravvivenze senza più vita? No, i giovani non ci ascolterebbero, da queste querimonie nulla hanno da trarre ora: forse domani, quando da stanca cronaca recriminatoria esse, selezionate criticate ragionate, diventeranno a loro volta storia. Ma fatta, vivaddio, da altri. Oggi, rifuggendo dalla storia (quella lunga che abbiamo alle spalle, scomoda e non rimuovibile, da cui ci sottraiamo quanto più essa ci impone conti oggettivi e forti), tendiamo a consolarci con la memoria, con la sua plasmabile soggettività debole. Un diluvio memorialistico: se materia di studio per i posteri, passi (decideranno loro quel che varrà la pena di leggere); ma se memoria magistra vitae, allora no: spesso noiosa, infida sempre. Come la pratica delle interviste: facile discorsività evasiva, un pensiero ‘di rimessa’ spezzettato e stuzzicato dall’esterno, nessuna traccia di visione complessiva, di quella che si chiamava e resta la fatica del concetto.
Allora la storia, non quella breve delle nostre vite e carriere, bensì quella lunga – poiché di primo e secondo Risorgimento si tratta – della difficile, contraddittoria e insieme lineare storia della formazione della nostra Repubblica e della nostra Carta costituzionale, delle sue forze e ragioni promotrici, economiche, sociali, culturali, politiche. Questa dobbiamo ripensare e riproporre, ritrovarne l’orientamento e il destino dopo le difficoltà, le sconfitte, le perdite stesse di senso accumulatesi in questi anni: la scomparsa dei Partiti del CLN, il quadro internazionale sconvolto, il declino della classe operaia… Ridare un senso a questa storia, ha invocato un intelligente slogan lanciato di recente da Pierluigi Bersani: ma che non resti uno slogan d’occasione, che non sia lasciato cadere né da noi né dall’elaborazione culturale collettiva che tutte le forze democratiche dovranno pur affrontare se vorranno darsi un respiro, se non vorranno soffocare nelle memoriette correntizie di strumentale e corta veduta.
Difendere l’Unità conquistata dal primo Risorgimento e la Costituzione repubblicana conquistata dal secondo: il farlo impone oggi una cosciente, attiva, propositiva resistenza politica e culturale. Perché essa non si risolva in resistenza pur nobilmente conservatrice e anzi diventi propulsiva di efficaci riforme progressive da opporre al processo restauratore in atto, cioè di una nuova capacità di indirizzo culturale e di governo politico, non possiamo aggrapparci ai rami vecchi e spezzati o intestardirci a raccattar mucchietti di foglie marce: dobbiamo riandare alle radici vitali delle correnti ideali e dei grandi movimenti riformatori che cominciarono a trasformare in senso democratico lo Stato classista uscito dal Risorgimento, idealità e movimenti che il fascismo non riuscì a stroncare e che si rinnovarono e fra loro si confrontarono e poi collaborarono nella Resistenza e nella Costituente. E che, ancora, pur in una conflittualità esasperata dalla situazione internazionale e dalla crescita stessa della nostra società, procurarono lo sviluppo del Paese in un quadro di sostanziale tenuta democratica e laica. È a loro e a quelle loro storie di vocazione nazionale che dobbiamo impegnarci a ridare un senso oggi, un nuovo senso storico, nuove forme politiche, nuove declinazioni culturali: d’altronde, se del Risorgimento e della Resistenza, di minimizzarne e denigrarne l’immagine tanto si preoccupa revisionisticamente la destra, ciò accade perché essa ne avverte e teme il peso storico e la pregnanza politica nella difficoltà medesima di smantellarne le realizzazioni istituzionali e sociali; badiamo a nostra volta di non rinunciare a quel peso e a quella pregnanza, di ribadirne con fiducia le ragioni storiche e di ridar loro ragione e accelerazione attuale.
Le idee per un terzo Risorgimento? Nessuna enfasi e nessuna presunzione, anzi la consapevolezza del disorientamento con cui ci si avvia all’imminente 150°. Certo è però che una prospettiva politica senza forte battaglia delle idee resta una prospettiva politica debole, priva di futuro: e di questa battaglia io credo che l’ANPI, per la sua storia e per il suo intatto prestigio in un momento di difficoltà e distrazione dei partiti, possa costituire un prezioso, cruciale luogo di aggregazione e di rilancio.
Umberto Carpi