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L'intervento del Presidente nazionale ANPI alla conferenza: "Gli ebrei italiani dall'antifascismo alla Costituzione Repubblicana"

Noi, l’Anpi, abbiano fortemente voluto questo incontro per diverse ragioni per così dire usuali, ma anche per una ragione specifica che dirò dopo.
In primo luogo la cura dell’ANPI è costante verso i temi che voi avete affrontato, perché attengono alla natura dell’associazione, che è chiaramente rappresentata da alcune delle sue finalità esposte nell’articolo 2 dello Statuto, che recito: “valorizzare, in campo nazionale ed internazionale, il contributo effettivo portato alla causa della libertà dall’azione dei partigiani e degli antifascisti, glorificare i Caduti e perpetuarne la memoria; tutelare l’onore e il nome partigiano contro ogni forma di vilipendio o di speculazione; concorrere alla piena attuazione, nelle leggi e nel costume, della Costituzione Italiana, frutto della Guerra di Liberazione, in assoluta fedeltà allo spirito che ne ha dettato gli articoli”.
In secondo luogo abbiamo mantenuto, manteniamo e manterremo altissima l’asticella dell’attenzione sulla Shoah e sull’insieme dei passaggi che hanno portato, come ha scritto Sarfatti, dalla negazione dei diritti alla negazione della vita. L’esempio riguarda una particolare forma di memoria rappresentata dalle pietre d’inciampo.
In terzo luogo su tutta questa materia, come su ogni altra materia di cui abbiamo competenza, promuoviamo celebrazioni e partecipiamo a celebrazioni. Ma aggiungiamo un punto di ricerca storica, perché essa è di per sé un divenire. Noi non siamo un istituto storico, come è noto, perché partiamo dalla memoria, che è per sua natura soggettiva, per arrivare alla storia, che, per quanto condizionata dal contesto e dalle circostanze in cui si effettua, ha lo scopo di fissare il più alto punto possibile di oggettività.
Si discute molto sulla memoria: memoria storica, individuale, collettiva, sociale, condivisa. Mi chiedo come si possa definire una memoria che contribuisce in modo determinante alla costituzione o ricostituzione di una comunità nazionale. Mi riferisco alla memoria della Resistenza e dei suoi valori, che non nascono da un’astratta tavola di comandamenti, ma dalla concretezza, cioè dalla destrutturazione della retorica. Penso alle parole di Emanuele Artom quando, a proposito dei partigiani, scrive. “La retorica patriottarda o pseudoliberale non venga ad esaltare la formazione dei purissimi eroi: siamo quel che siamo”. È uno schiaffo, una sferzata, che non fa giustizia dei tanti comportamenti davvero eroici di tanti partigiani, per esempio coloro che non hanno parlato sotto tortura e sono stati uccisi. Eppure le parole di Artom ci servono perché propongono un’operazione di destrutturazione preventiva della retorica. Questo è l’approccio che mi pare più corretto per evitare una visione angelicata che non fa mai parte della storia dell’umanità. E proprio dalla concretezza delle vicende dei venti mesi e dalla loro memoria, il mito fondativo della Resistenza ne esce più forte, più storicamente determinato, più vivo, meno imbalsamato.
Da quella concretezza noi abbiamo astratto correttamente una collana di valori. Dalla memoria di quei valori nasce la Repubblica e poi la Costituzione. Da quella memoria il mito fondativo della Resistenza si rinnova nelle generazioni. Ecco perché, a proposito della memoria di cui sto parlando, forse si piò parlare di memoria costituente
. Tant’è vero che prevalentemente sulla memoria più che sulla storia si costruiscono i monumenti. Dopo il Risorgimento, altro mito fondativo, sorgono i monumenti a Garibaldi, Mazzini, Cavour. Dopo la Resistenza, sorgono i monumenti ai partigiani. E le pietre d’inciampo sono un monumento diffuso e partecipato. La stessa parola monumento rinvia all’esercizio della memoria. Per questo c’è da allarmarsi quando in alcuni Paesi europei si distruggono i monumenti alla Resistenza e magari si sostituiscono con monumenti a collaborazionisti, perché vuol dire che si sta cercando di manomettere le fondamenta storiche, ideali e morali su cui si è costituita nel dopoguerra quella comunità.
Perché parlo di memoria costituente? Prendete, fra i tanti, il primo comma dell’articolo 3 della Costituzione, ove è scritto, come sapete, che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di razza”. Si costituisce cioè una repubblica democratica sull’eguaglianza e la pari dignità sociale negando così in radice qualsiasi possibilità di discriminazione. Mai più leggi razziste. E dunque si annuncia l’esclusione politica, giuridica e morale dalla vita della comunità nazionale di ogni forma di antisemitismo. C’è da dire, per fortuna, che nell’Italia del 900 l’antisemitismo non si è mai manifestato nella coscienza popolare né con le dimensioni, né con l’aggressività di come si manifestò per esempio in Germania, in Polonia, in Ucraina e in tanti Paesi dell’Est.
Qual è però la specifica attenzione che noi abbiamo prestato nel promuovere questo convegno? È quella di creare relazioni, mantenere rapporti, costruire ponti, sollecitare un comune sentire con gli ebrei italiani e quanto meno con una parte della comunità ebraica. Con l’insieme della comunità ebraica vorremmo comunque mantenere, nel reciproco rispetto, una relazione.
Sappiamo bene che ci sono state e ci sono incomprensioni, alle volte tensioni, sicuramente diversità di opinioni, non sulla Shoah o più in generale sui temi della memoria, ma sulle politiche attuali del governo israeliano oppure, più limitatamente, sui modi tramite cui contrastarle.
Eppure, proprio oggi, quando a nostro avviso di nuovo il governo israeliano sta operando una sanguinaria politica di terra bruciata a Gaza che non trova giustificazioni nell’orrendo massacro del 7 ottobre da parte di Hamas, e quando quel governo di fatto si muove verso la progressiva annessione della Cisgiordania, proprio oggi noi diamo vita a questo convegno per indicare che per parte nostra non deve essere mai troncato il filo del rapporto fra l’Anpi e gli ebrei italiani
. Questo, sia perché è sbagliata, ovviamente, l’identificazione degli ebrei con la politica di Netaniahu, sia perché specificamente non ci sembra corretta l’identificazione della comunità ebraica con l’attuale politica di Israele. Pensiamo, insomma, che bisogna costruire ponti nella piena e conclamata reciproca autonomia. Per quanto lontana o utopistica possa sembrare o essere, noi condividiamo la prospettiva dei due popoli in due Stati in condizioni di riconosciuta sicurezza di entrambi, come sostenuto anche da Sinistra per Israele. Ma per questo noi operiamo per il riconoscimento dello Stato di Palestina, in quanto ci sembra un passo avanti proprio nella direzione di questa politica.
Aggiungo che noi pensiamo che il governo Netaniahu si iscriva, con le sue particolarità e il suo eccezionalismo, in quel quadro di una sorta di alleanza dell’estrema destra mondiale che va da Milieu a Trump a Bolsonaro a Orban alla stessa Meloni; una estrema destra composita e diversificata che costituisce nel suo insieme un pericolo mortale sia per le concrete conquiste democratiche del 900, dallo stato di diritto alla democrazia sociale, sia per l’esistenza stessa della forma di governo che chiamiamo democrazia
”.
“Mi pare che il rapporto della comunità ebraica italiana col fascismo non fu particolarmente diverso dal rapporto col fascismo da parte dell’insieme della società italiana. Ci fu una fase di consenso ascendente e poi di consenso discendente ed alla fine di aperto dissenso. Nel caso degli ebrei ci fu una nutrita adesione al fascismo, come scrive Daniele Susini, per convinzione, opportunità, necessità. Circa un terzo dei 35mila ebrei italiani si iscrisse al Partito Fascista. Ma assieme ci fu l’impegno antifascista di tante personalità; penso fra gli altri a Terracini, Curiel, Colorni, i fratelli Rosselli, Leone Ginzburg, Vittorio Foa.
Mi ha colpito la simmetria seguente: una trentina di ebrei aderisce al Manifesto degli intellettuali fascisti del 21 aprile 1925; una trentina di ebrei aderisce al Manifesto antifascista di Benedetto Croce del 1° maggio 1925. Notate le date simboliche del 21 aprile, nascita di Roma, e del 1° maggio, festa del lavoro. Ho notato, fra i trenta firmatari ebrei del Manifesto antifascista, due nominativi: Giorgio Levi della Vida e Vito Volterra. Si tratta di due docenti universitari dei 12 che nel 1931 rifiuteranno il giuramento di fedeltà al fascismo e che per questo furono estromessi dalle università.
Ma mentre per gli italiani il punto di rottura col fascismo, dopo un progressivo declino successivo alla sbornia dell’impero, è avvenuto durante la guerra, per gli ebrei italiani la rottura è avvenuta prima, dopo lo shock delle due leggi razziali del 1938. Successivamente il contrasto si fa inconciliabile prima con i campi di internamento per gli ebrei italiani durante la guerra come a Ferramonti di Tarsia, e poi con la persecuzione antiebraica dopo l’8 settembre, a cominciare dal ghetto di Roma. A proposito sottolineo che una parte importante di tutte le persecuzioni degli ebrei in Italia è avvenuta per il diretto intervento dei fascisti italiani e non solo dei fascisti tedeschi. 
Dopo l’8 settembre, scrive Michele Sarfatti, si è passati dalla persecuzione dei diritti alla persecuzione delle persone
.
Questi i dati: 6.800 deportati, 1 migliaio di partigiani, 1 migliaio di patrioti, un centinaio di caduti, 8 Medaglie d’Oro alla memoria.
Mi ha colpito fra le tante la figura di Franco Cesana, classe 1931. Muore in combattimento nel 1944, credo che non avesse compiuto 13 anni. Era stato espulso a 7 anni da scuola per le leggi razziali a Bologna; trasferitosi a Torino entra col fratello più grande nelle brigate di “Giustizia e Libertà”. 
Nel sacrificio di Franco Cesana trovo l’ennesima ragione per avanzare al Comune la proposta di un monumento ai ragazzi della Resistenza e penso a Roma perché proprio qui cadde in combattimento un tredicenne dal nome Ugo Forno.
Non ricapitolo le tante cose che ho ascoltato. Penso solo ad alcuni casi.
Penso a Mario Fiorentini, poi insigne matematico, i cui genitori sono arrestati ma riescono con uno stratagemma a fuggire. Mario è un gappista ed è l’ideatore dell’attacco di Via Rasella.
Penso a Pino Levi Cavaglione per l’attacco al ponte ferroviario delle Sette Luci fra Roma e Formia che colpì in modo micidiale un treno carico di militari tedeschi. 
Penso alle tante donne della Resistenza degli ebrei italiani, come Luciana Nissim, Vanda maestro, Elena Di Porto, Liana Millu; penso anche a Ursula Hirschmann, ebrea berlinese, la cui storia s’intreccia col Manifesto di Ventotene; già moglie di Colorni, si sposa poi con Spinelli ed è la madre di Barbara Spinelli, oggi giornalista e politica.
Conclusione: i partigiani ebrei italiani hanno lasciato un segno indelebile nella Resistenza e nell’Assemblea Costituente; Ugo Della Seta, Vittorio Foa, Giuseppe Emanuele Modigliani, Riccardo Momigliano, Mario e Rita Montagnana, Emilio Sereni, Umberto Terracini, Paolo Treves, Leo Valiani.
Anna Foa ha scritto, a proposito della Brigata ebraica: “Non sono partigiani, ma soldati britannici” come tali hanno contribuito alla liberazione di Alfonsine e alla Linea Gotica; tutto ciò è avvenuto nella parte finale della Resistenza cioè nei primi mesi del 1945. Ma il compito della Brigata era ben più ampio come si è detto: assiste i profughi, ne organizza i trasferimenti clandestini in Palestino, invia armi all’haganà. Claudio Vercelli scrive: “La milizia ebraica in Palestina era parte integrante della costruzione della comunità politica che si costituirà in Stato”.
Una formazione segreta, parte della Brigata ebraica, dà vita all’operazione Nakam (vendetta) e uccide più di mille nazisti in fuga. Questa vicenda francamente mi interroga.
Credo che nessuno possa obiettare su questo specifico aspetto del dopoguerra che in questo caso è legato all’unicità della Shoah e all’atrocità del genocidio. Eppure, rimane il fatto che proprio sul tema delle vendette avvenute immediatamente dopo la Liberazione, vendette – diciamo la verità – che in alcuni casi colpiscono anche degli innocenti, si muove una letteratura di destra che tende a delegittimare la Resistenza. Eppure non si può che prendere atto che questa resa dei conti con i responsabili di quella terrificante stagione di morte e di violenza parossistica avvenne in tutti i Paesi europei.
Fra due settimane celebriamo l’80° 25 aprile, un anniversario tondo, in un tempo terribile. Questo è il tempo, come ho detto, di attacco alla democrazia. È stato proprio un ebreo italiano, il capo del Fronte della Gioventù, il comunista triestino Eugenio Curiel, ad avanzare una vera e propria visione della democrazia futura, la democrazia progressiva, che ha contribuito a ispirare i princìpi costituzionali.
Ma è anche un tempo di ritorno della guerra. Penso alla tragedia in Ucraina, a Gaza, in Cisgiordania. Penso al riarmo generalizzato
.
Siamo sommersi dalla propaganda di guerra. Penso, per esempio, al surreale articolo uscito su Repubblica qualche giorno fa sul fascino del bunker come soluzione opportuna e conveniente per vincere la paura. Penso alla risoluzione del Parlamento europeo di pochi giorni fa in cui si invitano le scuole ad una formazione sul valore della difesa delle Forze Armate e non sulla difesa della pace. Mi pare francamente una precipitazione gravissima in siderale contrasto con l’art. 11 della Costituzione.
La propaganda di guerra divide, crea fratture, ha bisogno del nemico, fomenta l’odio.
Per questo, mai come oggi, dobbiamo unire, sanare lacerazione, specchiarci nell’altro, creare rapporti sociali, cioè, in parole povere e in ultima analisi, rimettere al centro la più importante lezione della Resistenza, e cioè il valore della persona, della sua dignità, della sua unica e irripetibile vita.
In conclusione auguro che questo incontro abbia una sola caratteristica: che sia il primo di una virtuosa serie
”.

Gianfranco Pagliarulo

Casa della Memoria e della storia di Roma

11 aprile 2025