Con la definizione di “case di latitanza” si intendono quelle abitazioni – in genere casolari e dimore coloniche di contadini sperdute in pianura e collina – che offrono riparo, alloggio, sostegno ai partigiani e disertori. Talvolta le case rappresentano veri e propri quartieri generali e di incontro delle formazioni. Sono centri di distribuzione della stampa clandestina, depositi di armi e luoghi di raccolta per coloro che vogliono salire in montagna a combattere, o rifugiarsi per periodi più o meno lunghi.
Le case di latitanza nascono dalla grande esperienza di protezione generale e spontanea che la popolazione sviluppa dopo l'armistizio nei confronti di soldati sbandati, prigionieri di guerra fuggiti dai campi, minoranze perseguitate. Il ruolo delle donne, in questa prima attività di salvataggio e in quella successiva, più strutturata, è fondamentale. Le donne danno vita a quello che è stato a ragione definito un immenso «maternage di massa» che «rappresenta una delle espressioni specificamente femminili della resistenza civile italiana» (A. Bravo, Resistenza civile, in Dizionario della Resistenza, a cura di E. Collotti-R.Sandri-F. Sessi, Torino, Einaudi, 200o, v. 1, p. 270). Grazie alle donne, le famiglie, sostanzialmente matriarcali – data l'assenza generalizzata degli uomini, perlopiù sotto le armi – accolgono in casa i fuggitivi, i renitenti, i disertori, li sfamano, forniscono abiti civili, li nascondono, li rinfrancano.
Non si tratta di un impegno privo di conseguenze, tutt'altro: chi è responsabile delle case di latitanza e ospita fuggitivi è punito, quando scoperto, con l'arresto, e la tortura e la morte. Tuttavia, si tratta, anche in questo caso, di un impegno ineludibile: senza il fondamentale appoggio della popolazione “non combattente” – che realizza così una delle modalità della cosiddetta Resistenza “civile” – difficilmente il movimento resistenziale avrebbe potuto prendere le mosse, radicarsi, svilupparsi e, alla fine, vincere.