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Ultime lettere dalla Resistenza

Dietrich Bonhoeffer e i suoi familiari nella lotta contro Hitler.

a cura di Eberhard e Renate Bethge, Claudiana Editrice, 2001, pp. 212

“Dietrich Bonhoeffer Testimone di Cristo tra i suoi fratelli”: è scolpito per la storia su una lapide, nella chiesa del villaggio di Flossemburg.
Bonhoeffer era un teologo luterano antinazista, impiccato dalla Gestapo, il 9 aprile 1945. Suo padre era medico (psichiatra e neurologo); la madre, Paula von Hase, figlia di un cappellano delle corte dell’imperatore e nipote di un noto storico della Chiesa, Karl von Hase. In questo ambiente dell’alta borghesia, nacque Dietrich a Breslavia il 4 febbraio 1906.
Nel febbraio 1933, invitato a parlare alla radio, Bonhoeffer manifestò le sue idee: “Quando il Führer diventa un idolo – disse – la sua immagine scade in quella del seduttore ed egli agisce delittuosamente nei confronti di coloro che egli conduce e di se stesso”.
Col passare del tempo Bonhoeffer passò a una lotta più coraggiosa. Divenuto libero docente, nel settembre 1933, preparò un ricorso, insieme ad altri, contro il paragrafo degli ariani al “Braune Synode” di Wuttemberg e, non potendolo fare pubblicare, lo affisse su tutti gli alberi della città, con l’aiuto di un amico, il pastore Franz Hildebrandt. Nel 1938 entrò in contatto con i capi del complotto per un rovesciamento del nazismo.
Trait-d’union con i cospiratori fu il cognato di Bonhoeffer, Hans von Dohnanyi, collaboratore del generale Beck, capo delle Abwehr, che dirigeva segretamente la resistenza militare. Il 5 aprile 1943, Bonhoeffer venne arrestato. Poco prima era stato preso il cognato.
Da Berlino, la Gestapo lo trasferì nel carcere di Tegel. Fallito l’attentato a Hitler, il 20 luglio 1943, documenti compromettenti del gruppo di resistenza di Bonhoeffer furono scoperti. Allora la Gestapo lo trasferì di nuovo da Tegel nelle celle della Prinz-Albert Strasse. Nelle prime settimane del 1945 fu deportato nel campo di concentramento di Buchenwald. Il giorno dopo, la domenica in Albis, a 39 anni, Dietrich Bonhoeffer venne impiccato. Salutando gli amici di prigionia, le sue ultime parole furono: “È la fine. Per me è l’inizio della vita”. Una settimana dopo Berlino era libera.
Di questo teologo, delle cui opere solo dalla metà degli anni ’60 del secolo scorso si è cominciato a parlare, era apparso nel 1968, quasi inosservato, un volumetto di meditazioni (“L’opera della tentazione”). Poi l’editore Bompiani, nel giro di pochi mesi, nel 1969 pubblicò due libri importanti: “Etica” e “Resistenza e resa”.
In “Etica”, l’autore discute sui fondamenti e la possibilità di un’etica cristiana, concepita come conoscenza del “nostro stato”.
A ricordare Dietrich Bonhoeffer, c’è anche questa raccolta di lettere indirizzate alle rispettive famiglie, tra il momento dell’arresto e quello dell’esecuzione, da lui, dal fratello Klaus e dai cognati Rudiger Schleichner, Hans von Dohnanyi e Justus Delbrück. Tutti coinvolti nel complotto anti-Hitler, i cinque sono affratellati in queste comunicazioni, la cui drammaticità è accentuata dalla clandestinità e dall’ansia per le persone amate (Schleicher alla moglie: “Mai avrei pensato che un giorno ti avrei dato simili preoccupazioni”), dalla speranza all’interno della disperazione (Klaus alla figlia: “Io qui adesso apprezzo persino la vista delle mura della prigione”) e dall’accettazione della fine in una prospettiva autenticamente cristiana (Delbrück nel carcere di Moabit: “Se così vuole, Dio può dire di più attraverso la morte di un uomo che attraverso la sua vita”).
Da segnalare,la vocazione pedagogica antiautoritaria di cui parla Klaus nell’ultima lettera ai figli piccoli:  la “libertà interiore”, la “dignità” e la “estrema onestà”, non sono costrizioni ma indicazioni, non valori, ma possibilità.