Il coraggio di respingere l'indifferenza e di sfidare il futuro
"Respingere l’indifferenza, la rassegnazione, la “distrazione”, in nome di quei che giovani che a partire dal 1943 ebbero il coraggio di riprendere in mano il loro destino e il loro futuro", questo in estrema sintesi il significato dell'intervento del presidente nazionale dell’ANPI, Carlo Smuraglia, pronunciato il 9 marzo, in occasione della manifestazione di apertura del 70° anniversario della Resistenza, a Torino, al Teatro Carignano, per ricordare gli scioperi del marzo 1943.
Si avvia qui, oggi, nella splendida cornice di un bellissimo e glorioso Teatro, gremito, un lavoro che ci impegnerà per i prossimi tre anni, per ricordare degnamente l’anniversario della Resistenza. Un avvio felice, bisogna dire, poiché oltre al ricordo ed alla rievocazione degli scioperi del marzo 1943, che saranno tenuti dal Sindaco di Torino, Fassino, da un illustre storico come il Prof. Della Valle e dal Presidente Nazionale dell’Anpi a nome di tutte le Associazioni partigiane, ci sarà anche un importante tavola rotonda con i tre Segretari Generali delle Confederazioni sindacali CGIL, CISL e UIL, da cui dovrà nascere non solo un giudizio su quei fatti, ma anche un’attualizzazione.
E’ bene, infatti, che ci impegniamo tutti a fare in modo che le “celebrazioni” del 70° riescano ad evitare il connotato “liturgico” e di pura celebrazione. E’ doveroso, certamente, ricordare gli scioperi del ‘43, un atto di enorme coraggio e di grandissimo impegno politico; è doveroso anche ricordare le vittime, perché vi furono arrestati e deportati e non pochi persero la vita. Ma è altrettanto, e forse più, doveroso cogliere l’occasione per cercare di recare un contributo alla conoscenza ed alla valutazione dei fatti, da molti – ancora oggi – ignorati, per una riflessione sul loro significato e valore, anche alla luce del presente e del futuro.
E’ stata, dunque, una scelta positiva quella di abbandonare il carattere celebrativo che troppe volte ha contraddistinto le nostre manifestazioni sulla Resistenza, per cercare di comprendere appieno ciò che è avvenuto in Italia tra il ’43 e il ’45 e per cogliere il ruolo rappresentato dagli scioperi, nel contesto complessivo della Resistenza; nel quale essi si inseriscono a buon diritto, anche perché quelli del marzo 1943 furono solo l’avvio di un movimento, che continuò con gli scioperi dell’estate, dell’autunno, dell’inverno del ’43, per poi arrivare ai grandissimi scioperi della primavera 1944, in concomitanza con le iniziative della Guerra di Liberazione e in particolare della Resistenza armata.
La Resistenza, infatti, è stata una vicenda straordinaria, forse la più bella e significativa della storia d’Italia; una vicenda che colpisce anche per la sua complessità, perché la lotta armata si coniugò con la resistenza non armata, nelle sue mille forme e manifestazioni, perché – per la prima volta nella storia – si trovarono a reagire alla dittatura fascista e poi alla occupazione tedesca, persone di varie ideologie, di varie professioni e mestieri, uomini e donne uniti nella stessa ansia di libertà e di democrazia.
Anche se è ormai pacifico che gli scioperi, anche quelli del marzo 1943, furono contrassegnati da una forte carica politica, è altrettanto sicuro che essi furono effettuati da tanti lavoratori diversi per idee e per consapevolezza, ma concordi nel cercare non solo la protesta ma anche il riscatto. Così, in tutta la Resistenza, poterono operare insieme comunisti, socialisti, cattolici, liberali, perfino monarchici e molti anche semplicemente contrari al fascismo e ansiosi di libertà.
E’ in questo contesto che si inserisce l’esplosione del 5 marzo 1943 e dei giorni seguenti, che lasciò stupiti e impreparati molti cittadini e molti fascisti, questi ultimi – poi – pronti a reagire con la violenza del potere.
Ed è questa la ragione per cui sono contrario a ridurre la Resistenza ai venti mesi che vanno dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 ed a valorizzare soltanto gli aspetti della lotta armata.
La Resistenza fu un insieme di atti e di comportamenti, armati e non, diretti a contrastare la prepotenza fascista, a liberare il Paese dalla dittatura e dall’occupazione tedesca, a preparare un futuro di democrazia. Ed è in questo complessivo contesto che vanno considerati anche gli scioperi, come parte integrante di un movimento di liberazione estremamente complesso e ricco.
Di questo quadro, intendo sottolineare prima di ogni altra cosa un dato che è la costante di tutto ciò che è stata la Resistenza: il coraggio e la responsabilità delle scelte.
Per meglio capirlo, occorre partire dalla contestualizzazione degli scioperi del marzo 1943, che aprirono – appunto – una fase di lotta e di impegno civile che si concluse solo con l’insurrezione del 25 aprile.
Quando i lavoratori di Torino incrociarono le braccia, alle 10 del 5 marzo, da più di 20 anni erano spariti l’associazionismo, la solidarietà di classe, lo sciopero. Era dal 1926 e più ancora dal 1930, con l’avvento del nuovo codice penale, che lo sciopero era diventato un reato. E quale reato! Il codice penale lo puniva, soprattutto se collegato a finalità politiche, con pene severe, che – considerata anche l’aggravante dello stato di guerra e quella della finalità coercitiva dell’Autorità - prevedevano una sanzione fino a 2 anni di carcere per i partecipi e fino a 4 anni per i capi e promotori.
Ma il fatto, inconcepibile per il fascismo, era di per sé inseribile anche fra i reati contro la personalità dello Stato; e in questo caso si passava dall’associazionismo sovversivo, punito da 5 a 12 anni, al disfattismo politico o economico, punibile con pena non inferiore a 5 anni. La competenza non era più del Tribunale ordinario o della Corte di Assise, ma del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, (organismo più politico che giudiziario) o addirittura dei Tribunali Militari.
Ma c’è ancora di più: essere considerato sovversivo, allora, significava essere esposto a qualcosa di più immediato delle sanzioni penali: dopo l’arresto, l’invio ai campi di concentramento o di sterminio, dove il trattamento è a tutti noto.
Di fatto, chi entrò in sciopero, sapeva a quali conseguenze andava incontro; e non era un’ipotesi teorica, perché, in effetti, furono centinaia gli arrestati o deportati; e di essi, non pochi non fecero più ritorno.
Eppure, al suono delle sirene, a partire dal 5 marzo, decine di migliaia di lavoratori entrarono in sciopero a Torino, a Milano, a Sesto S. Giovanni e in tanti altri luoghi (217 aziende e oltre 150.000 scioperanti, solo tra marzo e luglio).
Scioperi determinati da motivi economici, ma che contenevano qualcosa di molto più rilevante, dimostrando una frattura irreversibile rispetto alla continuità del regime fascista.
E furono soprattutto i fascisti a coglierne l’aspetto politico. Fu il comandante dei C.C. Hazon, fu il questore di Torino, fu il Capo della polizia Senise a cogliere lo sfondo politico e, a loro dire, “sedizioso” degli scioperi, perfino al di là della consapevolezza dei singoli manifestanti.
D’altronde, le parole d’ordine “pane e pace”, come la richiesta di fine della guerra erano incompatibili con l’accettazione della sopravvivenza del regime fascista.
Ebbene, la caratteristica fondamentale di questi scioperi, fu – appunto – il coraggio, l’accettazione dei rischi gravissimi e facilmente prevedibili.
E’ questo che dobbiamo ricordare, prima di ogni altra cosa, anche per far conoscere una realtà spesso dimenticata e sottovalutata, soprattutto da parte di generazioni abituate a sentire parlare dello sciopero come di un diritto e ad esercitarlo liberamente.
Un coraggio che accomuna queste azioni che oggi ricordiamo, a tutto il resto della Resistenza e colloca gli scioperi all’interno di essa.
L’impostazione che a lungo ha prevalso e di cui ho fatto cenno, pur comprensibile, non coglie tutti gli aspetti della Resistenza ampiamente intesa, che è composta da tutto ciò che è stato reazione e rivolta contro il fascismo e impegno contro l’occupazione nazista e contro la R.S.I., e comprende un insieme di atti e di comportamenti che hanno tutti alla base il coraggio delle scelte e la responsabilità.
E’ coraggio quello di chi intraprese e condusse la resistenza armata, ben conoscendo i propri limiti di preparazione e di esperienza militare e ben conoscendo l’enorme disparità di mezzi, strumenti ed uomini rispetto ad un esercito attrezzato e organizzato come quello tedesco. Eppure, quei combattenti – che spesso pagarono il loro coraggio con la morte – non esitarono ad affrontare i rischi, con la ferma volontà di ottenere la liberazione del Paese, a qualunque costo ed a qualunque prezzo.
E’ coraggio quello degli scioperanti del ‘43, consapevoli dei gravi rischi cui andavano incontro.
E’ coraggio quello dei giovani renitenti alla leva, che, al richiamo della R.S.I., si trasformarono in “sbandati” per sottrarsi all’arresto ed alle peggiori conseguenze e, molti, finirono poi per aderire alle bande che intanto si erano formate nelle montagne, oppure operavano nelle città.
E’ coraggio quello dei circa 600.000 militari che, dopo l’8 settembre, rifiutarono di aderire all’invito dei tedeschi e dei repubblichini a collaborare e in effetti, furono trattati – molti – non come prigionieri di guerra, ma come schiavi, alcuni finirono nei lager, e molti non fecero ritorno.
E’ coraggio quello del complesso di azioni e comportamenti che è stato giustamente inserito non già nel concetto di resistenza passiva, troppo riduttivo, ma in quello di “resistenza non armata”, che comprende tutti coloro che rifiutarono la guerra e contribuirono alla liberazione nei mille modi che la storia ci ricorda: dalle donne che, non solo combatterono con le armi, ma affrontarono il pericolosissimo mestiere di staffetta o furono amorevoli soccorritrici di prigionieri e feriti e misero in campo – nelle repubbliche partigiane - un complesso di “intendenza”, come scrivono alcuni storici, che andava al di là di qualunque esperienza del passato, ai contadini che spesso aiutarono i partigiani ben sapendo che se li avessero scoperti, tedeschi e fascisti, li avrebbero fucilati, e incendiate le loro case; ai sacerdoti che cercarono di difendere le popolazioni dalle violenze e brutalità, pagando spesso con la loro vita.
Questa è, dunque, la Resistenza, che oggi dobbiamo ricordare nella sua interezza, proprio partendo da una vicenda, come quella degli scioperi della primavera del ‘43, così diversa dalla lotta armata, ma così ricca di implicazioni, di significati, di valori.
Questa è la Resistenza che dobbiamo non solo ricordare, ma prima di tutto far conoscere, contro ogni forma di negazionismo, di revisionismo o anche di semplice sottovalutazione. Una Resistenza da ricordare ad un Paese smemorato, che troppo spesso preferisce dimenticare o rifiuta di conoscere anziché menarne vanto ed esserne orgoglioso, come accade, invece, in ogni Paese a riguardo delle pagine più straordinarie della sua storia.
Perché da questa Resistenza nasce non solo un ricordo e neppure solo una memoria che stenta a diventare collettiva, ma viene un grande insegnamento, di cui dovremmo fare tesoro. In quel coraggio delle scelte, degli scioperanti come degli altri, armati o non armati, c’è la forza di un esempio. Se negli scioperanti, così come in tutti i combattenti per la libertà, gli internati militari, le donne, i contadini, i sacerdoti, ci fosse stato un calcolo sui rischi, la Resistenza non ci sarebbe stata, il nostro Paese si sarebbe coperto di disonore ed a questo avremmo aggiunto il discredito di essere stati liberati da altri.
Quel coraggio, che non è fatto di spregiudicatezza e di sterile ardimento, ma di consapevolezza e di volontà politica, dev’essere per noi un simbolo ed un incitamento.
Viviamo in tempi difficili e duri e stiamo attraversando una crisi che assume sempre di più caratteri drammatici e preoccupanti, riguardando – insieme – l’economia, la vita sociale, la politica e la stessa democrazia. Ma ne abbiamo viste tante, in questo dopoguerra, dagli attacchi alla Resistenza e alla Costituzione, alle iniziative e manifestazioni neofasciste, ai tentativi di golpe, alle stragi di cittadini inermi, fino al terrorismo. E siamo riusciti a vincere le difficoltà, a superarle, con fatica, ma ritrovando ogni volta la solidarietà, la volontà di libertà e di democrazia, l’impegno collettivo.
Oggi, nell’affrontare le dure difficoltà di una crisi gravissima e l’incertezza che colpisce intere generazioni e soprattutto i giovani, dobbiamo riferirci a quegli esempi, richiamarci alle scelte ed al coraggio di chi seppe resistere, ai combattenti per la libertà, ai valori che li ispiravano e che poi sono stati trasfusi in una Costituzione molto avanzata, ma troppo esposta ad attacchi, insidie e pericoli. Nelle peggiori difficoltà, nei momenti più difficili, dobbiamo pensare a quegli uomini, a quelle donne che, a partire dal marzo 1943, ebbero il coraggio di riprendere in mano il loro destino e il loro futuro, assumendo le proprie responsabilità e considerando l’impegno civile e l’obiettivo finale superiori di gran lunga ai rischi che potevano correre.
In loro nome dobbiamo respingere l’indifferenza, la rassegnazione, la “distrazione” che ancora permea troppi cittadini del nostro Paese e ad esse contrapporre la volontà di riscatto, per uscire dalla degenerazione economica, sociale e politica in cui versa il nostro Paese. Dobbiamo anche ricordare che la Resistenza non è nata solo da una sterile protesta contro i fascisti e i tedeschi, ma è stato coraggioso impegno, sforzo di volontà per compiere scelte decisive e vincenti.
E’ con questa ispirazione che dobbiamo procedere alle celebrazioni del 70° anniversario della Resistenza; restando ancorati fermamente al passato, a quegli anni straordinari, a quel movimento complesso che abbiamo definito “Resistenza”, a quelle aspirazioni non solo alla libertà, ma anche alla democrazia; ma nello stesso tempo dobbiamo sapere guardare al futuro, con il coraggio e il senso di responsabilità di chi si rende conto di avere un grande debito nei confronti di coloro che si sono impegnati per la nostra libertà, e un forte dovere verso quanti, da noi, si aspettano di ricevere sicurezza, libertà, uguaglianza e democrazia. Lo dobbiamo soprattutto ai giovani, che si trovano a vivere in una società ingiusta ed hanno il diritto di aspirare ad un presente e ad un futuro migliore di quello attuale e, infine, più degno di essere vissuto.
Carlo Smuraglia