Smuraglia: "Condanne e marce non bastano più. Bisogna agire alla radice o negli Stati Uniti sarà guerra civile"
Quel che sta accadendo negli Stati Uniti, ci colpisce dolorosamente e ci preoccupa, per quel grande Paese e per la civiltà.
È stato detto che dall'inizio dell'anno sono 530 le vittime afro-americane della violenza da parte della polizia. Nei giorni scorsi, tutti i giornali hanno riportato la cronaca di due uccisioni, sempre da parte della polizia, in modo brutale e assolutamente privo di giustificazione, di persone “di colore”, con modalità veramente raccapriccianti. Siamo rimasti colpiti dal coraggio e dalla fermezza di una giovane donna, che ha voluto riprendere, con i mezzi di cui disponeva, una delle due tragiche vicende, soprattutto perché queste immagini “servissero per l'avvenire”. Non è bastato; mentre erano in corso le marce e le manifestazioni di protesta delle comunità più colpite, si è avuto un altro caso di omicidio, sempre da parte di un agente della polizia, a Houston.
Tutto questo fa riflettere, oltretutto perché avviene durante la presidenza di Obama, in cui molti della comunità afro-americana avevano riposto le maggiori speranze. Non credo proprio che sia colpa di Obama se i fatti violenti si sono ripetuti e qualche volta accresciuti. Ci sono sentimenti di odio razziale che resistono a tutto, al progresso, alla novità di una presidenza come quella di Obama; si dovrebbe addirittura pensare che quest'ultima, per qualche settore (la polizia, per esempio) abbia provocato un sentimento come di rivincita, di reazione ad un fatto non pienamente accettato, nonostante tutto. In effetti, lo scontro è tuttora in corso ed è difficile fare previsioni su quello che potrà avvenire in futuro e quali rimedi si potranno escogitare. Eppure, va trovata la soluzione, e presto, perché non è concepibile che queste manifestazioni violente, e talvolta atroci, di razzismo, possano essere ancora subite e tollerate, se l'America vuole essere, come aspira, il Paese della libertà.
La parola libertà si accompagna male a quella di discriminazione; semmai si integra perfettamente col concetto di uguaglianza. Ma dobbiamo constatare che la fase critica è ancora in atto, con la brutalità di sempre; e non bastano più le parole, occorrono iniziative sul piano culturale (come vengono addestrate, le varie polizie negli USA?) e politico. Fra l'altro, in questi giorni un altro ammonimento forte e doloroso è venuto da quanto è accaduto a Dallas, dove un “solitario” ha sparato più colpi contro gli agenti, uccidendone cinque e ferendone altri. Un fatto certamente gravissimo, sotto ogni profilo, e non solo in sé, ma per ciò che può significare: la tendenza a farsi giustizia da sé, a fronte dell'impotenza e della incapacità dell'establishment di risolvere – per sempre, e come si conviene ad un Paese libero – il problema della convivenza fra provenienze etniche e culture diverse. Se si facesse strada un siffatto modello di azione, si arriverebbe rapidamente ad una sorta di guerra civile, che renderebbe ancor più difficile la soluzione del problema ed anzi, sarebbe suscettibile di aggravarlo. Ma non basta condannare e deprecare un fatto come quello di Dallas – che pur suscita sdegno e richiede la più ferma condanna – se non se ne analizzano le origini e se ne valuta la pericolosità. Le marce di protesta hanno tutta la nostra solidarietà; bisognerebbe, semmai, che non fossero marce di soli afro-americani, ma che ad esse si unissero sempre di più i “bianchi”, per dimostrare che non si tratta del problema di un gruppo etnico, ma della civiltà di un intero popolo e di tutto il Paese.
A margine di queste considerazioni, vorrei che mi fosse consentito di fare una piccola, marginale notazione, che dimostra che, in qualche modo, c'è una dose maggiore o minore di razzismo, ovunque, e talora perfino inconsapevolmente.
Tutta la stampa ha parlato a lungo dei poliziotti che hanno ucciso due/tre afro-americani nell'ultimo periodo ed ha espresso condanna nei confronti anche delle modalità brutali e violente dei fatti. Ma quando il “solitario” ha sparato alla polizia tutti, o quasi, hanno titolato parlando di un “killer”. Si tratta di un fatto casuale, oppure della manifestazione, magari non voluta, di un giudizio di gravità maggiore rispetto al gesto di un poliziotto che, senza valido motivo, spara quattro colpi su un uomo, in una macchina in cui ci sono anche la sua compagna e una bambina? L'uso del linguaggio, ha ragione Laura Boldrini che su questo insiste da tempo, è più importante di quanto si pensi, anche perché talvolta mette in luce l'inconscio. Questo è forse uno di quei casi che ci segnalano una profonda divisione, anche nella coscienza dei singoli.
L'assassinio, bisogna convincersene, è sempre un atto ripugnante e da condannare, senza troppe distinzioni, per il solo fatto che colpisce il bene più alto, cioè la vita.
Carlo Smuraglia - da ANPInews n.210 (12/19 luglio 2016)