L'8 settembre 1943, la Divisione Acqui che, forte di 525 ufficiali e circa 11.500 soldati1, presidia le isole di Cefalonia e Corfù agli ordini del generale Antonio Gandin (1891-1943), si trova di fronte all'alternativa di arrendersi e cedere le armi ai tedeschi o di affrontare la resistenza armata. A Cefalonia, il comando italiano e quello tedesco – sull'isola si trovano circa 1.800 soldati della Wehrmacht – intavolano delle trattative che si protraggono per giorni, mentre al generale Gandin arrivano dal comando d'armata ordini contraddittori. Il generale cerca di prendere tempo, e di giungere a una soluzione incruenta che porti al rimpatrio dei reparti italiani. Come atto di buona volontà nei confronti degli ex alleati, ritira il presidio italiano dalla postazione di Kardakata, cosa che in seguito si rivelerà un fatale errore tattico. A differenza degli italiani, i tedeschi hanno idee e ordini chiari, e l'11 settembre presentano al comando della Acqui un ultimatum, che impone di scegliere tra tre opzioni: continuare a combattere al fianco dei tedeschi; combattere contro i tedeschi; cedere le armi.
Gandin consulta il proprio stato maggiore, alcuni ufficiali schieratisi apertamente per il combattimento contro i tedeschi, addirittura i cappellani della divisione. Lo stesso 11 settembre arriva, da Brindisi, un ordine chiaro del governo legittimo, che ingiunge di resistere contro i tedeschi. Ciononostante, le trattative proseguono.
Il 13 settembre, tre batterie italiane aprono il fuoco su due pontoni da sbarco tedeschi, carichi di truppe, armi e munizioni, che stanno muovendo verso il capoluogo, Argostoli, in violazione dello status quo stabilito dai comandi. Quello stesso giorno, il comando della Acqui decide di indire una sommaria consultazione dei reparti, richiesti di pronunciarsi sulle tre opzioni prospettate dai tedeschi. Tramite questo inusuale “referendum” il comando sa, ora, che le truppe sono disposte a battersi. A quel punto, Gandin risponde (14 settembre) all'ultimatum tedesco con una formula che ha dato adito a diverse perplessità. Scrive infatti: «La Divisione si rifiuta di eseguire il mio ordine di radunarsi nella zona di Sami poiché teme di essere disarmata […] intende rimanere nelle sue posizioni fino a quando non ottiene assicurazione […] che essa possa mantenere le sue armi» (La fonte tedesca è “Diario di guerra del XXII Corpo d'armata da montagna tedesco”, supplemento all'allegato 43a, BA-MA, RH 24-22/3, citato da vari autori tra i quali H.F. MEYER, Il massacro di Cefalonia e gli altri crimini di guerra della 1a divisione da montagna tedesca, a cura di M.H. Teupen, Udine, Gaspari, 2013).
Il 15 settembre comincia la battaglia che si protrae sino al 22. La resistenza della Acqui, abbandonata a se stessa, è stroncata dai forti rinforzi che arrivano a favore dei tedeschi2, che fanno anche intervenire l'aviazione, nei confronti della quale gli italiani sono praticamente impotenti. Gli stukas tedeschi mitragliano, bombardano e terrorizzano le truppe italiane, che si difendono con coraggio ma senza alcuna possibilità di vittoria. Più volte, inutilmente e a prezzo di ingenti perdite, gli italiani tentano di rimpossessarsi dell'altura di Kardakata, dalla quale si controlla l'intero settore occidentale dell'isola.
Ancor prima della resa, i tedeschi – in particolare le unità da montagna giunte appositamente sull'isola – eliminano in fucilazioni di massa i soldati italiani, una volta fatti prigionieri e disarmati. È qualcosa che accade solo a Cefalonia e per volere diretto di Hitler, che ha ordinato di non fare prigionieri sull'isola a causa del “tradimento” della Acqui.
Dopo la resa, i tedeschi passano alla rappresaglia per così dire “canonica”, fucilando quasi tutti gli ufficiali della divisione, concentrati poco fuori Argostoli. Il primo a morire è il generale Gandin; i corpi degli ufficiali fucilati verranno fatti sparire in mare.
Il numero delle vittime di Cefalonia è uno dei grandi quesiti della sua storia. Secondo le stime più attendibili, i caduti – perlopiù a seguito di rappresaglia, pochi in combattimento – sono tra i 2.313 (H.F. MEYER, Il massacro di Cefalonia e gli altri crimini di guerra della 1a divisione da montagna tedesca, cit.) e i 3.800 (G. Rochat, Prefazione a H.F. MEYER, Il massacro di Cefalonia e gli altri crimini di guerra della 1a divisione da montagna tedesca, cit.). Altri 1.350 soldati muoiono nei giorni successivi alla resa, mentre sono imbarcati sulle navi dirette in continente, e da lì nei campi di internamento. Le navi incappano in mine ed esplodono.
A Corfù, invece, il colonnello Luigi Lusignani (1896-1943), decide fin da subito di combattere contro i tedeschi. Inizialmente la resistenza italiana, condotta dal 18° reggimento Acqui ma anche da alcuni reparti del 49° reggimento "Parma" giunti dall'Albania, ha successo. Presto, tuttavia, anche in questa isola ionica arrivano i rinforzi per i tedeschi, e soprattutto i loro aerei, che hanno velocemente la meglio sugli italiani. Il 26 settembre Lusignani è costretto ad arrendersi. Verrà fucilato insieme al colonnello Elio Bettini della Parma e ad altri ufficiali. Numerose sono state le perdite tra i soldati durante i combattimenti.
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1La Divisione Acqui presidia Cefalonia con la maggior parte dei suoi effettivi ad eccezione del 18° reggimento fanteria, dislocato nell vicina isola di Corfù. A Cefalonia, l'organico della divisione, all'8 settembre, è composto dal 17° reggimento fanteria, dal 317° reggimento fanteria, dal 33° reggimento artiglieria, da un comando marina con vari mezzi, e alcuni reparti minori. Nel mese di agosto del 1943 giunge sull'isola un contingente di truppe tedesche, appartenenti al 966° reggimento granatieri da fortezza, per un totale di circa 1.800 uomini, fra cui 25 ufficiali, al comando del tenente colonnello Hans Barge.
2In particolare, intervengono a Cefalonia alcuni reparti della 1a Gebirgs-Division (1a Divisione da montagna) Edelweiss e della 104a Jäger-Division (104a Divisione cacciatori).