All'atto dell'armistizio, l'Albania, protettorato italiano dal 1939, è presidiata dal Gruppo Armate Est, composto da due corpi d'armata (VI e XIV) e due armate (9a e 11a). Le divisioni operanti sul territorio albanese sono sei: Perugia, Parma, Brennero, Firenze, Arezzo e Puglie. La notizia della resa giunge senza alcun preavviso nel tardo pomeriggio dell'8 settembre 1943. Le disposizioni del comando supremo accennano a un atteggiamento temporeggiatore nei riguardi dei tedeschi e alla necessità della tenuta dei porti di Cattaro e Durazzo, indispensabili per l'imbarco delle truppe. I tedeschi reagiscono con tempismo ed estrema durezza, accorrendo con truppe motocorazzate dai loro dislocamenti in Grecia, Macedonia, Erzegovina e Montenegro.
Il 10 settembre giungono a Durazzo e la occupano dopo alcuni scontri con unità italiane della marina e dell'esercito; nella stessa giornata cade anche il porto di Valona. L'11 settembre i tedeschi entrano a Tirana e arrestano il generale Ezio Rosi, comandante del Gruppo Armate Est, dopo avergli estorto la consegna delle armi pesanti con la falsa promessa del rimpatrio delle divisioni italiane. Rosi è poi sostituito dal generale Renzo Dalmazzo, comandante della 9a armata, apparentemente favorevole all'accordo con gli ex alleati.
Mentre quattro delle sei divisioni italiane cadono presto in mani nemiche, la divisione Firenze, guidata dal generale Arnaldo Azzi, si scontra con i tedeschi a Krujë, e la divisione Perugia fa lo stesso lungo il percorso diretto a raggiungere le coste.
Il comando della Firenze si accorda con i partigiani albanesi e con la missione britannica di collegamento, costituendo il “Comando Italiano Truppe alla Montagna” (CITaM), che raccoglie nelle proprie file migliaia di soldati italiani sbandati. I rapporti con i partigiani albanesi non sono però facili, e la stessa consistenza numerica (circa 10.000 uomini) degli italiani comporta infinite difficoltà logistiche. Gli attacchi dei tedeschi, inoltre, sono frequenti e provocano danni ingenti. Il CITaM si sbanda presto, e i suoi soldati trovano rifugio presso la popolazione o entrano singolarmente nella Resistenza albanese.
Circa 170 uomini della Perugia, insieme ad altre decine di sbandati, danno invece vita al battaglione Antonio Gramsci, una piccola unità che rappresenta un «modello di guerriglia italiano inedito», privo di ufficiali in posizione di comando, che sceglie i propri capi con metodi democratici. Pur quasi interamente distrutto nella difesa della città di Berat, il battaglione si riorganizza più volte (divenendo divisione) e resta attivo fino alla liberazione del paese, alla quale partecipa attivamente (I. Muraca, I partigiani all'estero: la Resistenza fuori d'Italia, in E. Collotti, R. Sandri, F. Sessi, Dizionario della Resistenza, Torino, Einaudi, 2006, p. 479 ss.).
La Perugia, invece, raggiunta la costa, permette con la sua resistenza l'imbarco verso l'Italia di migliaia di militari. I tedeschi reagiscono all'opposizione italiana con estrema durezza: avvengono stragi a Kuç, Saranda e Korça. Gli italiani sono anche oggetto di violenze da parte di alcuni partigiani albanesi, che puntano perlopiù alle loro armi, e soprattutto dei collaborazionisti e dei banditi locali.