Nata come tale solo nel 1934, la Libia italiana, composta dalle due province della Tripolitania e della Cirenaica (ma non dal Fezzan, regione desertica a sud della Tripolitania), è un territorio conquistato durante la guerra del 1911-12 contro l'Impero Ottomano, e il cui possesso italiano è ratificato dal Trattato di Losanna del 1912. Contro la nuova dominazione inizia subito una lotta di resistenza che, durante il primo conflitto mondiale, sfocia in episodi di aperta insurrezione. Il secondo Trattato di Losanna conferma il possesso italiano di Tripolitania e Cirenaica, ma in entrambe le regioni restano attivi i movimenti di guerriglia che puntano all'indipendenza.
Gli sforzi di pacificazione dei territori sottoposti al controllo italiano prendono avvio nell'anno in cui il fascismo assume il potere, il 1922. Gli accordi raggiunti negli anni precedenti, che hanno concesso alle popolazioni locali alcuni margini di autonomia e organismi di rappresentanza (Repubblica di Tripoli, 1918-1922; Parlamento della Cirenaica, 1920-1923), vengono dichiarati nulli, e i governatori delle due regioni (in particolare, quelli della Tripolitania: Giuseppe Volpi, 1921-1925, Emilio De Bono, 1925-1929, Pietro Badoglio, 1929-1933, ma per la Cirenaica non va dimenticato il ruolo del vicegovernatore Rodolfo Graziani, 1930-1934) si dedicano alla cosiddetta “riconquista” del territorio che, con il governatorato di Italo Balbo, sarebbe diventato la Libia.
Come quelle della Cirenaica, anche alcune tribù tripolitane vengono confinate in aree ristrette; parte delle loro terre è confiscata. Agli inizi del 1930 si conclude, dopo quasi un ventennio di guerra endemica, la riconquista della Tripolitania, mentre a oriente, in Cirenaica, è ancora in atto un forte movimento di ribellione.
“La Libia – ha scritto Manlio Dinucci su “Il Manifesto” del 12 giugno 2009, durante la visita di Gheddafi a Roma – fu per l'aeronautica di Mussolini ciò che Guernica fu in Spagna per la Luftwaffe di Hitler: il terreno di prova per armi e tecniche di guerra più micidiali”. Tra queste armi e tecniche micidiali, i mitragliamenti e i bombardamenti indiscriminati sulla popolazione, con esplosivi chimici, la famigerata iprite, proibita da un protocollo della Convenzione di Ginevra ma in seguito ampiamente utilizzata dagli italiani anche in Etiopia.
Nel volume memorialistico Ali sul deserto, pubblicato nel 1933 con prefazione di Italo Balbo, l'aviere Vincenzo Biani racconta una di queste “eroiche” imprese: "Gli equipaggi, navigando a pochi metri da terra, poterono seguire le piste dei fuggiaschi e trovarono finalmente sotto di sé un formicolio di genti in fermento; uomini, donne, cammelli, greggi; con quella promiscuità tumultuante che si riscontra solo nelle masse sotto l'incubo di un cataclisma; una moltitudine che non aveva forma, come lo spavento e la disperazione di cui era preda; e su di essa piovve, con gettate di acciaio rovente, la punizione che meritava. Quando le bombe furono esaurite, gli aeroplani scesero più bassi per provare le mitragliatrici. Funzionavano benissimo. Nessuno voleva essere il primo ad andarsene, perché ognuno aveva preso gusto a quel gioco nuovo e divertentissimo. E quando finalmente rientrammo a Sirte, il battesimo del fuoco fu festeggiato con parecchie bottiglie di spumante" (V. Biani, Ali sul deserto, Firenze, Bemporad, 1933, p. 25).