I campi di prigionia, internamento e concentramento, in cui detenere i soldati nemici e quelle categorie di persone ritenute pericolose per la sicurezza nazionale soprattutto nei periodi bellici, vengono utilizzati in Italia già nelle guerre ottocentesche, ma il ricorso a essi diventa sistematico con le due guerre mondiali.
Nel corso del secondo conflitto, vengono spesso utilizzate località e strutture pre-esistenti sia sul territorio nazionale sia nei territori occupati.
Solitamente i campi vengono collocati in edifici abbandonati o inutilizzati (castelli, ville, fabbriche, scuole etc.), lontani dai centri abitati e dalle vie di comunicazione e dunque per lo più in pessime condizioni. I loro “ospiti” sono così concentrati in località dal clima rigido e/o insalubre, e costretti a subire difficilissime condizioni di prigionia, fatte di malnutrizione, ritmi lavorativi disumani, sovraffollamento, totale mancanza di igiene, continue vessazioni fisiche e psicologiche.
La storia concentrazionaria fascista può essere sostanzialmente suddivisa in tre periodi, quello precedente al conflitto mondiale, quello della prima fase bellica (1940-1943) e quello successivo all'armistizio e all'occupazione nazifascista della penisola (1943-1945).
I primi campi creati dall'Italia fascista sono quelli in cui, dal 1930, il generale Graziani rinchiude le popolazioni seminomadi della Libia (Deportazioni coloniali). Segue, nel 1935, un campo in Somalia, destinato a detenere il notabilato locale e i prigionieri di guerra etiopi. Le condizioni di vita, nei campi africani, sono durissime.
L'entrata dell'Italia in guerra comporta misure restrittive per ogni individuo, italiano o di altra nazionalità, ritenuto pericoloso. Il 4 settembre 1940 Mussolini firma un decreto legge (Decreto 4.9.1940) in base al quale vengono istituiti i primi campi di concentramento per gli stranieri presenti sul suolo italiano e provenienti da paesi nemici. In questa categoria rientrano – e questo fin dal maggio di quell'anno – anche gli ebrei provenienti da paesi alleati, definiti comunque “ebrei stranieri”, un'“espressione – scrive Capogreco – impiegata dalla burocrazia fascista per definire gli israeliti provenienti dalle nazioni ufficialmente antisemite”, come la Germania. Nel decreto del 4 settembre 1940 rientrano però, anche, i civili “pericolosi” catturati durante le campagne militari, come avviene di lì a poco con l'occupazione italiana della penisola balcanica. Altro tipo di detenzione è quella a cui vengono destinati i prigionieri di guerra, trattati diversamente in base alla loro provenienza: durissima è la cattività degli slavi e dei greci, più conforme alle convenzioni internazionali quella dei soldati britannici e del Commonwealth e poi americani.
Tornando all'internamento dei civili, va precisato che le prefetture iniziano già alla fine degli anni Venti a compilare schedari con i nominativi dei sospetti da arrestare “in determinate contingenze”, come in caso di guerra. Tali schedari si arricchiscono nel 1938 sulla scorte del censimento degli ebrei stranieri.
Con la guerra, entrano in funzione in Italia due tipi di campi, entrambi definiti ufficialmente come “di concentramento”: “quelli sottoposti al ministero dell'Interno, destinati agli internati civili di guerra; quelli di pertinenza del regio esercito, che acco[lgono] quasi esclusivamente deportati civili iugoslavi” (Capogreco) e, poi, prigionieri di guerra. Il più grande, tra i secondi, è situato a Gonars, in provincia di Udine, che arriva ad ospitare circa 5.000 civili. Il campo più noto o, meglio, famigerato, situato in territorio di occupazione è invece quello di Rab (Arbe), in Croazia. Tra 1942 e 1943 vi muoiono, “per le pessime condizioni igienico-sanitarie, la carenza di cibo e la mancanza di tutela internazionale” (Id.), circa 1.500 internati. Altro campo italiano in territorio estero, tristemente noto, è quello di Larissa, in Grecia.
I campi di internamento e concentramento dell'Italia meridionale – il principale sorge a Ferramonti di Tarsia, in provincia di Cosenza – vengono chiusi nei mesi che precedono lo sbarco alleato e in parallelo con l'avanzata delle truppe anglo-americane. Talvolta le strutture sono riutilizzate per la detenzione dei prigionieri fatti dall'esercito liberatore.
Al centro-nord, invece, la nascita della Repubblica Sociale Italiana e l' occupazione tedesca favoriscono il sistema concentrazionario e la successiva deportazione dei detenuti nei campi di sterminio nazisti.
I cosiddetti campi di smistamento in Italia, anticamera dei lager europei, sono quattro: Borgo San Dalmazzo (Cuneo), Fossoli (Modena), Grosseto e Bolzano-Gries.
Dopo l'occupazione nazista della Venezia Giulia, che diviene territorio del Reich, è creato a Trieste l'unico campo di sterminio italiano, la Risiera di San Sabba.
Nell'arco cronologico 1930-1945, le strutture detentive italiane, di diverso tipo e destinate a varie tipologie di “detenuti”, sono numerosissime e diffuse in modo capillare sul territorio nazionale e di occupazione. In base ai dati – provvisori – presenti sul sito www.campifascisti.it, si può parlare – per il periodo pre-bellico e bellico – di 135 campi di concentramento, circa 85 campi e distaccamenti di lavoro, 109 campi di prigionia, 15 campi provinciali della Repubblica Sociale Italiana. A queste cifre vanno aggiunte 85 carceri, 566 località d'internamento, 34 località di confino e 8 località di soggiorno obbligato.
I dati della presente scheda sono tratti da:
C.S. Capogreco, Campi di concentramento, in Dizionario del fascismo, a cura di V. de Grazia-S. Luzzatto, Torino, Einaudi, 2003, v. 1, pp. 229-231.
Id, Internamento civile, in Ivi, pp. 674-676