L'8ª Armata Italiana in Russia (ARMIR) è la formazione del Regio Esercito inviata sul fronte orientale tra il luglio del 1942 e il gennaio del 1943.
Costituita per volontà dello stesso Mussolini, è composta dai reparti già costituenti il Corpo di Spedizione Italiano in Russia (CSIR), sul fronte orientale dal luglio dell'anno precedente, e da divisioni provenienti da altri fronti. Inquadrate nel tedesco Heeresgruppe B e comandate dal generale Italo Gariboldi, le divisioni Torino, Pasubio, Cosseria, Ravenna, Sforzesca, Vicenza, Cuneense, Julia e Tridentina (insieme a tantissimi reparti minori), partecipano all'avanzata nell'Ucraina orientale combattendo fra il Donec e il Don per essere poi definitivamente schierata sull'ansa del Don.
Per l'Italia, entrata in guerra impreparata economicamente e militarmente, e già impegnata nel Balcani e in Africa, la guerra contro l'Unione Sovietica rappresenta uno sforzo enorme.
Anche quella sul fronte orientale è per l'Italia una guerra subalterna all'alleato tedesco che, spesso, deve intervenire in suo aiuto, come sugli altri fronti. La subalternità è evidente anche in ambito politico e tattico, come si evince dal fatto che Hitler comunichi a Mussolini l'intenzione di invadere la Russia solo il giorno stesso dell'invasione (22 giugno 1941). Anche il fronte orientale, tuttavia, è per l'Italia fascista, un'occasione di essere al fianco del potente alleato e di condividerne le conquiste. In particolare, nuovi studi hanno dimostrato che “Mussolini non escludeva che l'Italia potesse trarre beneficio dall'occupazione dei territori sovietici”, mirando alle riserve di petrolio del Mar Nero, “che avrebbero risolto il problema energetico italiano”, oltre a “impedire che l'Urss arrivasse attraverso il Mar Nero al Mediterraneo” (M.T. Giusti, I prigionieri italiani in Russia, Bologna, Il Mulino, 2014, 2a ed.).
L'ARMIR, stanziata sul medio Don, è coinvolta nella travolgente offensiva sovietica su Stalingrado. Nel gennaio 1943, sconfitta in battaglia e costretta alla ritirata, vedrà molti dei suoi uomini morire nelle nevi della steppa russa e soprattutto in prigionia.
La confusione generale e gli errori organizzativi impediscono di soccorrere con automezzi le migliaia di uomini in ritirata, che devono così marciare a piedi, nella neve, a temperature proibitive, per centinaia di chilometri in cerca di una via di scampo dall'accerchiamento, dagli attacchi delle colonne corazzate nemiche e dei reparti partigiani che agiscono alle loro spalle. Chi finisce in mano sovietica non gode sorte migliore e, come la storiografia ha dimostrato, la gran parte dei caduti italiani in Russia – perlopiù dispersi – si ha proprio durante i trasferimenti nei campi e la permanenza in strutture totalmente inadeguate a contenere e alloggiare centinaia di migliaia di prigionieri tedeschi, italiani e loro alleati. La fame, il freddo, le malattie, il lavoro svolto in condizioni disumane, uccideranno la gran parte degli italiani che dalla Russia non hanno fatto ritorno, tra gli 80 e i 100.000 (sui circa 230.000 inviati).
Con la sostanziale distruzione dell'ARMIR ha di fatto termine la partecipazione italiana alla campagna sul fronte orientale. Alcune unità italiane continuarono comunque a operarvi sotto il comando tedesco.