Nato a Parma il 16 aprile 1888, morto a Roma il 27 agosto 1955.
Rispetto ad altre personalità del regime, Augusto Turati aderisce al movimento fascista relativamente tardi, tra 1920 e 1921. Ardente interventista, partecipa come capitano alla guerra del 1915-18. Giornalista di professione, è caporedattore de “La Provincia di Brescia”, quotidiano moderato, di indirizzo liberal-democratico. È nella città lombarda di adozione che Turati entra a far parte del movimento e poi del partito fascista.
Con il fascismo al governo, Turati organizza la violenza contro popolari e socialisti, che a Brescia continuano ad avere una solida base di consenso. Dopo l'assassinio, da parte dei fascisti, di un imprenditore agricolo, e l'attacco radicale alle leghe bianche, il ras rivendica il diritto, per gli squadristi, di usare la forza contro gli oppositori antifascisti e in generale contro chiunque osi mettere in discussione l'egemonia del partito in campo sindacale e politico.
Deputato dal 1924, nel marzo 1926 Turati, pur rappresentando l'ala più radicale del fascismo di provincia, viene scelto da Mussolini come nuovo segretario nazionale del partito, in sostituzione di Roberto Farinacci, nel quadro di normalizzazione dello squadrismo.
A Turati segretario nazionale viene chiesto di fare in modo che partito rispecchi, in subordine, il nuovo principio di autorità dello stato, spazzando via le velleità di procedure elettive per le cariche interne, impedendo ogni tentativo di sopravvivenza di correnti e, infine, trasformando il partito stesso in una enorme riserva di fascisti alla quale attingere per creare quadri ed esecutori della politica mussoliniana.
Nei quattro anni della direzione turatiana, il partito riesce a penetrare in tutti i gangli della società e delle istituzioni, attraverso la sostituzione del personale del passato con fascisti sicuri e fedeli, dando così fine alla fase iniziale del fascismo.
Sono questi gli anni delle leggi fascistissime e della nascita del tribunale speciale, che emetterà condanne a secoli di carcere e alla fucilazione per gli oppositori del regime; sono gli anni in cui vengono sciolte tutte le organizzazioni giovanili non legate al fascismo, e in cui si epurano le istituzioni statali degli elementi non allineati.
Nel 1927 il regime redige la "Carta del lavoro", preludio all'organizzazione corporativa dello stato. Nel processo di cancellazione di qualsiasi sopravvivenza delle regole liberali, Turati ha responsabilità storiche evidenti e incancellabili. Tra il 1926 e il 1930, il gerarca ottiene incarichi anche in ambito sportivo, arrivando ai vertici del Comitato Olimpico Nazionale Italiano (Coni).
Neanche con Turati, tuttavia, nonostante le apparenze, i rapporti del duce sono idilliaci. Il 7 ottobre 1930 Turati lascia l'incarico di segretario del partito, e per un breve periodo collabora con il “Corriere della Sera”. Dalle colonne del principale quotidiano italiano e, poi, da quelle de “La Stampa”, della quale diviene direttore nel gennaio del 1931, Turati conduce diverse battaglie politiche, sia verso il nemico storico Roberto Farinacci, sia nei confronti della politica economica del regime. Né Farinacci né lo Stato restano indifferenti, e Turati finisce coinvolto in uno scandalo di natura sessuale. Costretto a lasciare il giornale, viene espulso dal partito e inviato al confino a Rodi. Rientra in Italia nel 1938 dopo un soggiorno in Etiopia, e si ritira a vita privata.
Finita la guerra, è condannato per le responsabilità avute durante il fascismo, venendo amnistiato poco tempo dopo. Muore a Roma il 27 agosto 1955.