Nato a Casale Monferrato (Alessandria) il 14 novembre 1884, morto a Roma il 23 giugno 1959.
Avvocato e laureato anche in lettere e filosofia, non disdegna, divenuto fervente fascista, di trasformarsi in un ras a tutti gli effetti, con le consuete connessioni con lo squadrismo e la violenza, l'attacco terroristico e le distruzioni delle sedi di associazioni e partiti avversari. Rappresentante dell'ala più conservatrice, reazionaria e monarchica del fascismo, la sua carriera politica e amministrativa può essere considerata fallimentare nonostante gli siano stati attribuiti incarichi di alto prestigio.
Dopo la laurea in giurisprudenza ottenuta nel 1906, apre con successo uno studio legale a Torino, città nella quale ha anche funzioni in alcune istituzioni culturali. Non appartiene al confuso e vociante movimento per l'entrata in guerra dell'Italia, ma partecipa al conflitto ed è congedato con il grado di capitano. Nel 1925, per i suoi meriti bellici, il re gli conferirà il titolo di conte di Val Cismon.
Inizia così per De Vecchi il percorso comune a molti ex-combattenti della guerra mondiale: l'incontro con il primo fascismo, l'organizzazione della violenza squadrista nel 1920-21, i primi incarichi politici. Già candidato senza successo alle elezioni del 1919, nel 1921 ottiene, per il collegio di Torino, un seggio in parlamento all'interno del gruppo parlamentare fascista. Nel 1922 entra a far parte del comando generale della milizia. Di lì a poco, De Vecchi assurge al compito più alto tra le cariche fasciste, quello di preparare la marcia su Roma insieme a Italo Balbo, Michele Bianchi ed Emilio De Bono. All'interno del cosiddetto quadrumvirato, De Vecchi rappresenta l'ala più conservatrice e filo-monarchica del fascismo, e piuttosto evidente è la sua sostanziale contrarietà al progetto eversivo di Mussolini.
La marcia, però, è un successo politico. Il primo incarico ministeriale assegnato a De Vecchi è così secondario: viene nominato sottosegretario all'assistenza militare e alle pensioni di guerra per il ministero del Tesoro.
Nel maggio 1923 è destinato al governatorato della Somalia italiana, una di quelle cariche nominalmente prestigiose, ma che in realtà mirano a estraniare dalla vita politica nazionale personaggi ritenuti scomodi, come anni dopo avverrà per Italo Balbo. In Somalia il conte di Val Cismon usa la forza per riportare il territorio sotto il controllo coloniale italiano e annette i due sultanati di Obbia e Migiurtinia, togliendo loro qualsiasi autonomia.
Nel 1928, in vista dei Patti Lateranensi, il cattolico De Vecchi viene richiamato in Italia e nominato ambasciatore presso il Vaticano. Nel 1935, cessato il compito diplomatico, è per qualche mese ministro dell'Educazione nazionale (gennaio 1935-novembre 1936). Nel 1936 diviene governatore delle Isole Italiane dell'Egeo, un'altra carica che tende ad allontanarlo da Roma dove, come ministro dell'istruzione, ha tentato di sottrarre al PNF l'egemonia sull'educazione politica della gioventù, suscitando i malumori di diversi gerarchi.
Il governatorato De Vecchi del Dodecaneso corrisponde alla totale italianizzazione e fascistizzazione delle isole, alle quali nel 1938 vengono estese le leggi razziali.
Pur da una condizione di evidente marginalità, De Vecchi si schiera a favore di un immediato ingresso dell'Italia nel secondo conflitto mondiale, come racconta Ciano: “Per la prima volta ho trovato uno che vuole fare subito la guerra con i Tedeschi contro la Francia e Inghilterra. Questi è nientedimeno che l'intrepido Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon! Gli americani dicono che ogni minuto nasce un imbecille: basta trovarlo. Questa volta l'ho trovato. È soprattutto un vanesio che sogna maresciallati e collari e spera conquistarli col sangue degli altri” (Diario di Galeazzo Ciano, nota del 6 marzo 1940, edizione a cura di U. D'Andrea, Milano, Rizzoli, 1950, vol. I, p. 233).
Nel 1940 il quadrumviro rientra in patria perché il Dodecaneso, area di guerra, viene affidato a un governatorato militare. Non gli è più affidato alcun incarico. Membro del Gran Consiglio, il 25 luglio 1943 vota contro Mussolini e per questo verrà condannato a morte in contumacia durante il processo di Verona. Il rapporto tra il duce e il quadrumviro non è mai stato entusiasmante, come registrava Ciano già nel giugno 1939: “Il Duce parla di De Vecchi e dice che sono diciotto anni che si porta sulle spalle il peso di un così ingombrante individuo. ‘Il 28 Ottobre del 1922 era già pronto a tradire e a sistemarsi in una combinazione ministeriale di concentrazione'. Dopo questa premessa, rievoca una dopo l'altra le gaffes commesse in ogni posto. Cominciò a suscitare l'ira di Dio minacciando di togliere la pensione ai mutilati di guerra, poi fece un discorso che fu una vera e propria scossa per il Regime, poi in Africa si diede ad occupare con la forza territori che erano già nostri e compiè crudeli quanto inutili stragi. In conclusione lo giudica un ‘intrepido buffone' ma vuol tenerlo buono e gli dà tutto quel che chiede. Ne ha nominati baroni i due generi – e ci ride sopra – e finirà per dargli l'alto grado militare cui aspira”. (Diario di Galeazzo Ciano, nota del 12 giugno 1939, edizione citata, vol. I, pp. 115-116).
Nascosto in un convento dei salesiani fino alla fine della guerra, successivamente si rifugia in Argentina.
La condanna a cinque anni di carcere per l'organizzazione e la partecipazione alla marcia su Roma viene condonata grazie a una lunga serie di attenuanti specifiche e generiche. Nel 1949 De Vecchi fa così ritorno a Roma, dove muore il 23 giugno 1959.